La mia “Pet-therapy” …
Avrò avuto all’incirca cinque anni, la volta che i miei genitori portarono me e mia sorella, più grande di un anno, a trascorrere qualche giorno o forse anche una settimana d’Estate presso la casa di campagna di questi nostri “zii”, nella località di Borgofranco sul Po, in provincia di Mantova; in realtà erano due cugini, con le rispettive mogli, di una mia prozia “acquisita”: moglie, cioè, del fratello più giovane di mio nonno materno… Insomma, non si può certo dire che tra di noi vi fosse una vera parentela! Ma ci accolsero ugualmente con lo stesso calore e affetto che ci ha sempre dimostrato questa cara prozia. Per me questo periodo fu uno di quegli eventi meravigliosi, “mitici”, quasi, che con un po’ di fortuna si possono vivere durante l’infanzia…
Dunque ci recammo nella loro piccola fattoria -e solo a pensarci mi rammento il fresco odore che si sprigionava dai filari di pere che la circondavano, posta poco prima dell’argine
del “Grande Fiume” – probabilmente in compagnia di mia madre e della stessa prozia, durante il soggiorno. Di quei giorni, la cosa più bella in assoluto, per me, fu il contatto con gli animali, che costituivano una mia passione fin dalla più tenera età; e i primi di cui mi ricordo furono le mucche: lo Zio Dario ne avrà avute quattro o cinque nella stalla, da latte, pezzate bianche e nere, più i due “misteriosi” manzi in un’altra stalla più piccola adiacente. Il suono dei loro muggiti, cupo e prolungato, mi attraeva e spaventava allo stesso tempo, ma quando giravano le loro teste per guardarmi, con i grandi occhi vellutati, e magari anche leccandosi l’umido muso, io mi “scioglievo” in un’emozione di stupore per la loro bellezza: le avrei volentieri accarezzate, se non fossi stata così intimorita dalla loro mole e dai loro movimenti… Lo zio aveva dato un nome a ciascuna di esse, o almeno così mi aveva raccontato, ma l’unico di cui mi ricordi era quello di Nerina, una mucca quasi interamente di quel colore. Era affascinante, poi, osservare come le mungeva, a mano, e posso ancora ricordarmi il buonissimo e intenso sapore del latte appena munto, tiepido, che costituì le nostre colazioni di quel breve periodo di vacanza.
Ci alzavamo presto, io e mia sorella, in un tripudio di eccitazione come solo i bambini sanno provare quando vivono simili momenti: ogni mattina, davanti a noi si spalancavano quelle lunghe giornate estive, apparentemente “vuote”, cioè libere da qualsiasi impegno, ma in realtà colme di nuove esperienze da vivere e da fare. Bastava poco, tra l’altro, per divertirsi: ricordo un giorno che trascorsi, quasi per intero, armata di uno schiacciamosche, a praticare questa attività per il bene della fattoria!… Un’altra volta, e si trattò probabilmente di un primo pomeriggio caldo e assolato, mentre gli adulti si stavano concedendo un meritato riposo dalle quotidiane fatiche “rurali”, una mia cugina più grande mi aiutò ad aprire la porta a rete e ad introdurmi furtivamente nel pollaio, dove con grande entusiasmo mi cimentai per qualche tempo nell’inseguimento delle galline…senza intenzione di far loro del male, in realtà, ma solo per il divertimento di acchiapparle e tenerle un poco tra le mani…Naturalmente, però, loro non la presero affatto bene, correvano e svolazzavano starnazzando, fuggendo dove potevano, e non oso pensare per quanti giorni consecutivi, in seguito, non furono in grado di deporre le uova, a causa dello spavento che avevo provocato loro…
Dietro il pollaio, c’era un altro posto, un po’ “magico”, ben più silenzioso, e coperto, in penombra, nel quale si trovavano le gabbie dei conigli dello Zio Mario, l’altro zio: questi erano bianchi con gli occhi rosati, poiché albini, da allevamento; una volta lo zio ci portò a vedere i piccoli appena nati, che se ne stavano raggomitolati tutti insieme, nudi e ciechi, in apposite cassettine contigue alle gabbie delle mamme-coniglie, dove infatti queste avevano preparato il “nido”, con ciuffi del loro stesso pelo e paglia; e ci permise di tenere un momento fra le mani quelli invece più grandicelli: e intensa fu la sensazione di tenerezza nell’accarezzare il loro soffice mantello e le loro lunghe orecchie “spianate” contro il dorso, guardando i loro nasini rosa che non smettevano un attimo di fremere, arricciandosi buffamente, mentre scalciavano con le più grandi zampe posteriori, graffiando un pochino le nostre piccole braccia, sicuramente per la paura che dovevano sentire…
C’erano poi i “famosi” cani da caccia dello Zio Dario, che infatti era anche cacciatore: tutti di razza e ben addestrati, stando a ciò che dichiarava orgogliosamente lui… sebbene ora io abbia più di un dubbio al riguardo; stavano in gabbiotti dotati di cucce, o a volte legati con la corda a cucce esterne, ed erano tanto puzzolenti quanto desiderosi di affetto e di carezze: “simil-segugi” di diversi tipi, dal pelo corto, o lungo, o ispido, che ululavano e ci saltavano addosso festosamente. Una volta, io e mia sorella non resistemmo, e liberammo tre cuccioloni, che si misero a scorrazzare entusiasti per l’aia, e riacchiapparli fu una vera impresa per tutti i componenti umani presenti…
La sera arrivava presto, dopo tanto divertimento, e allora era il momento di farsi un bel bagno caldo nella tinozza di zinco, indossare il pigiama e cenare; e, terminata la cena, di distribuire le pelli del salame e della mortadella ai gatti, che spuntavano ingordi per papparsele da ogni angolo dell’aia, avvicinandosi con passi felpati all’uscio di casa aperto e illuminato, con i loro occhi luminosi a loro volta, riflettenti quella stessa luce nell’oscurità, e facendo le fusa.
Veniva così infine l’ora di andare a dormire, e, piene di sonno, io e mia sorella salivamo a piedi nudi la scala, e percorrevamo il pavimento di legno un po’ scricchiolante della stanza da letto a noi riservata, per poi infilarci tra le lenzuola fresche e addormentarci, sognando le nuove meravigliose imprese che avremmo compiuto il giorno seguente…
Vittoria Montemezzo