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La città di Parma può vantare di avere ben due prodotti tipici della sua gastronomia di fama pressocché mondiale: il Prosciutto Crudo e il formaggio Parmigiano Reggiano; e ciascuno dei due affonda le sue radici in tempi lontani…

IL PROSCIUTTO DI PARMA

Sembrerà forse un po’ strano, ma la parola “prosciutto” deriva dal Latino, e, in sostanza -passando per “pro exsuctus”, o “prae suctus”, o “perexsuctum” – significa “prosciugato”; ciò si riferisce alla modalità di lavorazione della carne per ottenerlo: una volta macellata, infatti, questa viene salata, in modo tale che il sale letteralmente la “prosciughi”, bloccando così lo sviluppo dei batteri e permettendone la conservazione.

In effetti, come racconta nel suo “De re rustica” Varrone, letterato e agronomo latino, fin dall’epoca romana, la zona di Parma, nel cuore della Gallia Cisalpina, era nota per l’attività di allevamento di grandi mandrie di suini, dalla cui carne erano ricavati prosciutti salati, sostanzialmente con la stessa tecnica di produzione impiegata oggi; Catone stesso, celebre politico, generale e scrittore romano, la delinea ancora prima, nel 2°secolo a.C., nel suo “De agri cultura”. Nel corso dei secoli, ne parlarono anche altri autori famosi come Plauto, Polibio, Orazio, Strabone e Giovenale. E pare addirittura che Annibale, quando fu accolto come liberatore dai parmensi nel 217 a.C., venne da loro omaggiato con cosci di maiale conservati sotto sale dentro barili di legno, che al famoso condottiero cartaginese piacquero moltissimo! … Soltanto alla fine del Medioevo, però, la plurisecolare tradizione di produzione degli insaccati si “specializzò” nell’“Arte dei Lardaroli” -originatasi da quella più antica dei “Beccai” – contribuendo alla fama del Prosciutto di Parma come specialità esclusiva dei “lardaroli” parmensi. Nel tempo a seguire, riferimenti al rinomato salume compaiono inoltre:

-in un “Libro de cocina” della seconda metà del Trecento;

-nei consigli dietetici del medico bolognese Baldassarre Pisanelli, nel 16°secolo;

-nel menu di nozze dei Colonna, storica casata patrizia romana, nel 1589;

-in mezzo alle rime del poeta e scrittore modenese Alessandro Tassoni;

-nella preziosa ricetta, risalente al 17° secolo, del palermitano Carlo Nascia, cuoco alla corte di Ranuccio 2° Farnese, duca di Parma e Piacenza…

La tradizionale produzione del Prosciutto fu sicuramente favorita dalle sorgenti saline presenti nel territorio parmense, come ad esempio quelle di Salsomaggiore; un tempo interamente artigianale, essa si sviluppò progressivamente, fino ad arrivare all’industrializzazione dei nostri giorni, la quale ne ha notevolmente migliorato le condizioni igieniche, mantenendone tuttavia invariate le caratteristiche peculiari. Che consistono in un prodotto dal sapore dolce e intenso, ma con un basso apporto calorico, e con un unico conservante ammesso: il sale, per l’appunto. Nel 1963 i produttori si sono riuniti in un Consorzio per poter vigilare sulla scelta della materia prima e la sua lavorazione, ed esistono ulteriori regole che devono essere rigorosamente rispettate a garanzia della sua qualità e originalità: come la zona di produzione, situata 5 Km a sud della via Emilia, ad un’altitudine non superiore ai 900 metri, e delimitata, rispettivamente ad est e ad ovest, dai torrenti Enza e Stirone. Infine così, il gustoso e celebre salume -insignito della Denominazione di Origine Protetta (D.O.P) – può ricevere, impresso a fuoco sulla cotenna, il noto marchio della corona a cinque punte…

IL PARMIGIANO REGGIANO

Questo celebre formaggio ebbe origine nel Medioevo, intorno al 12°secolo, ma può essere che risalga anche a secoli precedenti…Certo è che intorno al 13°e 14°secolo aveva raggiunto le caratteristiche del tipo odierno, e la sua composizione, a pasta dura, era forse simile a quella del “Piacentino” e del “Granone Lodigiano” -quest’ultimo a volte citato da antiche fonti romane. Furono in particolare i monaci delle abbazie benedettine e cistercensi, che ancora oggi sorgono nel territorio tra Reggio Emilia e Parma, ad avviarne la produzione, allo scopo di creare una qualità di formaggio dalla forma grande e dalla pasta asciutta che si potesse conservare a lungo. Per allevare animali di grossa taglia come i bovini, adatti ad una grande produzione di latte, c’era la necessità di vasti prati ricchi di acqua sorgiva, e quindi le aziende agricole dei monasteri caratterizzate da questa tipologia di allevamento nacquero e si svilupparono proprio nei territori che presentavano queste caratteristiche, come a nord di Parma e nella zona di Fontanellato-Fontevivo, o in quella tra Montecchio Emilia e Campegine nel Reggiano. Inoltre, a Salsomaggiore, nel parmense, si trovavano le saline dalle quali poter prelevare il sale necessario alla trasformazione casearia. Già verso l’anno 1000, le fonti storiche attestano l’esistenza del “Formadio” nei terreni appartenenti alla Contessa Matilde di Canossa, cioè presso Frombarola, nel comune di Carpineti, dove all’epoca “regnavano” i frati di Marola. E nel 1254, un atto notarile testimonia la presenza del “Caseus Parmensis”, il “Formaggio di Parma”, nella città di Genova, dunque al di fuori della sua zona di provenienza: ciò significa che a quell’epoca la sua commercializzazione era già cominciata; per continuare poi ad espandersi durante il 14°secolo, verso Romagna, Piemonte e Toscana, giungendo fino ai centri marittimi del Mediterraneo.

Persino il celebre letterato Giovanni Boccaccio, nel 1351, cita il “Parmigiano grattugiato”, descrivendo il paese di “Bengodi”, nel suo “Decamerone”!

Nel 1400 la produzione in Emilia proseguì e aumentò, tra i feudi e le abbazie che ad essa concorrevano, e nel corso del 16°secolo si ebbe lo sviluppo delle vaccherie, accanto ai caseifici per la trasformazione del latte: in questi i mezzadri si alternavano per aiutare il casaro, aggiungendo il latte proveniente dalle loro stalle a quello del proprietario; il caseificio era quindi chiamato “turnario”, diventando in questo modo anche un punto di riferimento sociale, oltre che produttivo ed economico.  Nello stesso periodo, anche la zona di Modena divenne importante nella sua produzione, e il Parmigiano compare in diverse ricette, sia di pasta che di dolci. A Parma “formaggiai” e “lardaroli” vendevano i loro prodotti anche a mercanti milanesi e cremonesi, e li esportavano fino in Europa, tra Germania, Fiandre, Francia e Spagna.

 Si era giunti così alla necessità di “proteggere” commercialmente il Parmigiano dalla concorrenza di formaggi simili, e così nel 1612 il duca di Parma Ranuccio 1°Farnese   ne ufficializzò la prima denominazione d’origine.

Nel 1700 le guerre continue che coinvolsero i ducati di Parma e Modena resero ovviamente difficoltosa la produzione, che però si riprese in seguito.

 La sua modalità produttiva è rimasta sostanzialmente naturale e invariata dal Medioevo fino ai nostri giorni, senza l’aggiunta di alcun additivo, acquisendo tuttavia nel ‘900 alcune importanti innovazioni, come l’uso del siero innesto e del riscaldamento a vapore.

Nel Luglio del 1934, i rappresentanti dei caseifici di Parma, Reggio Emilia, Modena e Mantova alla destra del Po si accordarono sulla necessità di assegnare uno specifico marchio di origine al loro prodotto, e nel 1954, dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’originario consorzio per la sua tutela si trasformò nel “Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano” attuale. Infine, nel 1996 venne riconosciuto come una vera e propria D.O.P. – “Denominazione di Origine Protetta” – a livello europeo: poiché ad oggi il “Re dei Formaggi”, proprio a causa della sua grande notorietà e del suo sapore, è uno dei più contraffatti e imitati al mondo…

Vittoria Montemezzo

Due pilastri dell’attivismo per i diritti delle persone con disabilità, entrambi scomparsi recentemente. La loro dedizione ha giocato un ruolo fondamentale nella promozione e realizzazione del Piano di Eliminazione delle Barriere Architettoniche (PEBA) nella città.

Il prossimo Giubileo del 2025 pone una sfida significativa: garantire l’accessibilità completa per tutti i pellegrini, inclusi quelli con disabilità. Questa preoccupazione ha spinto un politico locale e il responsabile per la disabilità del Movimento Cambia a sollecitare azioni concrete per perpetuare l’eredità di Parlante e Mirasole.

Tra le iniziative proposte, spicca lo sviluppo di un’app che mappi gli itinerari accessibili e identifichi le barriere architettoniche da eliminare. Questo strumento non solo aiuterebbe i residenti, ma anche i turisti e pellegrini, migliorando l’inclusività della città in vista del Giubileo.

L’assessore Episcopo e l’amministrazione comunale sono stati invitati a considerare seriamente questa proposta, per avviare un progetto tangibile che promuova il turismo accessibile e continui la lotta per un Foggia senza barriere.

Cristina Zangone

La città di Reggio Emilia non è famosa solo per essere la città natale di Ludovico Ariosto, del Tricolore Italiano e del Parmigiano Reggiano: è stata anche il luogo dove ha avuto inizio e si è sviluppato un approccio pedagogico talmente “rivoluzionario” e innovativo da riscuotere successo a livello internazionale, a partire dagli Stati Uniti, prendendo il nome di “REGGIO EMILIA APPROACH”. Il suo iniziatore fu un certo Loris Malaguzzi, nato nel 1920 a Correggio, un comune della provincia di Reggio Emilia, laureatosi in Pedagogia all’Università di Urbino e diventato insegnante di scuola elementare nel 1940: alla fine della Seconda Guerra mondiale, nel 1945, egli si rese conto di quanto fosse urgente, nel contesto di una “rinascita” generale, la necessità di ripartire proprio dall’educazione, che negli anni di guerra aveva ovviamente subito un arresto; così, insieme ad un gruppo di persone comuni, di estrazione contadina e operaia, decise di costruire e gestire una scuola per bambini proprio nel piccolo borgo di campagna di Sologno, dove aveva cominciato a insegnare; a questa ne seguirono altre, sempre “autogestite”, in periferia e nelle zone più povere della città. Successivamente, nel 1950, dopo aver frequentato un corso di Psicologia presso il CNR -Consiglio Nazionale delle Ricerche- di Roma, divenuto psicologo, cominciò ad esercitare questa professione per i bambini in difficoltà, presso il Consultorio Medico Psicopedagogico Comunale di Reggio Emilia, continuando tuttavia anche quella d’insegnante in queste scuole.

Nel 1963 il comune di Reggio Emilia cominciò ad organizzare una rete di servizi per l’infanzia, aprendo anche i primi asili per bambini da 3 a 6 anni: per la prima volta si affermava così il diritto di fondare una scuola laica anche per i bambini piccoli. Loris Malaguzzi, assieme alle altre persone che collaboravano con lui in questo progetto, presero a caricare loro stessi, i bambini e i loro “strumenti di lavoro” su di un camion, e in questo modo letteralmente trasportavano la loro idea di scuola al di fuori, nei parchi pubblici o sotto i portici del teatro comunale, tra la felicità dei bambini e la sorpresa e la curiosità della gente. Su richiesta di madri lavoratrici, nel 1970 venne aperto il primo asilo nido per bimbi dai 3 mesi ai 3 anni. Nel 1971 uscì il primo testo laico per gli insegnanti, da lui curato, “Esperienze per una nuova scuola dell’infanzia”, basato, appunto, sull’esperienza vissuta nelle scuole di cui era consulente. Nel 1976 ebbe l’incarico di dirigere la rivista mensile “Zerosei”. Nel 1980 fondò il “Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia”. Il suo progetto stava ormai per valicare i confini dell’Italia, e, nel 1991, l’asilo “Diana”, nei giardini pubblici di Reggio Emilia, venne nominato dalla rivista americana “Newsweek” l’istituzione per la prima infanzia più avanzata nel mondo; seguirono il Premio “Lego” della Danimarca e il “Kohl” di Chicago nel ‘92. E l’anno in cui egli morì, il 1994, venne fondata, seguendo il suo volere, l’associazione internazionale “Amici di Reggio Children”, per la difesa e lo sviluppo dei diritti e delle potenzialità dei bambini, nonché la diffusione della sua metodologia educativa.

Ma quali sono dunque le caratteristiche di quest’ultima che la rendono così speciale? Loris Malaguzzi era profondamente convinto che il bambino sia per natura parte attiva, o meglio ancora, il vero protagonista della sua acquisizione di conoscenza: egli è cioè naturalmente portato a conoscere il mondo che gli sta attorno, spinto dai suoi interessi,  attraverso esperimenti, verifiche e confutazioni che lui stesso mette in atto; gli adulti hanno quindi il delicato compito di accompagnare e guidare i bambini nelle attività che questi prediligono(evitando ovviamente situazioni pericolose o nocive), lasciando da parte la tradizionale metodologia di trasmissione del sapere da adulto a bambino ancora utilizzata nell’attuale sistema educativo-scolastico,  che prevede una posizione “passiva” di quest’ultimo nel momento in cui riceve le nozioni. E’ inoltre fondamentale tener presente che tutto ciò che i bambini imparano deriva non soltanto dalla loro interazione con gli oggetti e con l’ambiente circostante, ma anche dalle relazioni che stabiliscono con gli adulti che li seguono e con gli altri bambini: di qui la necessità di relazioni affettive salde e positive, basate sull’affetto e la fiducia, all’interno degli asili, che coinvolgano anche i genitori dei piccoli. In questa prospettiva, anche l’ambiente scolastico deve diventare sicuro, “amabile” e stimolante, un posto, in sostanza, in cui il bambino si senta accolto e ami trascorrere il tempo, libero di seguire le sue inclinazioni, provando e “pasticciando” in appositi spazi-laboratori. Le esperienze dei bimbi andranno poi “raccolte”, in veste di lavoretti, disegni ecc., per mantenere le “tracce” del loro processo di apprendimento, in modo da poter poi migliorare ed espandere le conoscenze acquisite, nonché come “mostra” temporanea o permanente rivolta agli stessi genitori, per tenerli aggiornati su tutto ciò che avviene nella scuola.

Riassumendo, questi sono i principi sui quali Loris Malaguzzi basava la sua idea educativa:

-E’ necessario dare più attenzione al bambino che alla materia da insegnare.

-E’ importante incentivare la trasversalità culturale e non il sapere diviso in “settori.”

-E’ più importante il progetto rispetto alla programmazione.

-Ha maggiore importanza il processo di apprendimento piuttosto che il “prodotto” finale.

-E’ necessario osservare e documentare i processi individuali e di gruppo.

-Il confronto e la discussione sono tra le strategie più efficaci nella formazione.

-E’ indispensabile l’autoformazione degli insegnanti.

Ed infine, egli diceva questo: “I bambini costruiscono la propria intelligenza. Gli adulti devono fornire loro le attività e il contesto, e soprattutto devono essere in grado di ascoltare”.

Vittoria Montemezzo

Il 15 aprile 2024, il Governo italiano ha approvato un nuovo decreto legislativo che riforma in modo significativo il trattamento e la valutazione delle persone con disabilità. Il decreto, intitolato “Definizione della condizione di disabilità e implementazione del Progetto di Vita personalizzato”, è entrato in vigore il 30 giugno 2024, con alcune disposizioni che verranno applicate dal 10 gennaio 2025.

Cambiamenti Terminologici e Normativi

Una delle modifiche più notevoli apportate dal decreto riguarda la terminologia: i termini obsoleti come “handicap” e “diversamente abile” sono stati sostituiti con “condizione di disabilità”. Questo aggiornamento terminologico mira a eliminare le connotazioni negative e a promuovere un linguaggio più rispettoso e inclusivo.

Sperimentazione e Valutazione

A partire dal 2025, il decreto prevede una fase di sperimentazione delle nuove procedure di valutazione, che includerà una valutazione multidimensionale per considerare non solo gli aspetti medici, ma anche quelli sociali, ambientali e lavorativi delle persone con disabilità.

Progetto di Vita

Uno degli aspetti più innovativi del decreto è l’introduzione del Progetto di Vita personalizzato, che mira a fornire un supporto su misura a seconda delle esigenze individuali. Questo progetto considera vari fattori chiave come l’educazione, l’impiego, l’integrazione sociale e le necessità abitative, promuovendo un approccio olistico all’inclusione.

Accomodamento Ragionevole

Il decreto introduce il concetto di “accomodamento ragionevole” nel contesto lavorativo, obbligando datori di lavoro pubblici e privati a modificare l’ambiente di lavoro per facilitare l’inclusione delle persone con disabilità, senza imporre oneri eccessivi.

Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP) e Assistenza (LEA)

Infine, il decreto stabilisce i Livelli Essenziali delle Prestazioni e di Assistenza, garantendo standard minimi di servizi e supporti accessibili a tutte le persone con disabilità su tutto il territorio nazionale, riducendo le disparità regionali.

Questo decreto legislativo segna un passo significativo verso un Italia più inclusiva, garantendo che le persone con disabilità possano godere di una qualità della vita migliore e di maggiori opportunità di integrazione nella società.

Cristina Zangone

Forse non tutti sanno che la famosa principessa “Sissi” -soprannome vezzeggiativo datole in famiglia (che però in realtà era “Sisi”) – cioè la duchessa Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, moglie dell’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, soggiornò a Merano e dintorni e li visitò in diverse occasioni; e si può dire che Merano acquisì la sua fama di città termale e di cura proprio grazie al fatto di essere stata così amata e frequentata da questo celebre personaggio. In genere, pensando a lei, viene in mente la nota trilogia di film degli anni ’50, di grande successo, incentrata sulla sua figura; che in realtà è però una versione piuttosto romanzata della sua vita…che invece fu piuttosto triste, a quanto pare. Ma cominciamo dall’inizio…

INFANZIA E ADOLESCENZA: Elisabetta nacque il 24 Dicembre 1837 a Monaco di Baviera, come quarta dei dieci figli del duca Massimiliano Giuseppe “in Baviera”, un ramo collaterale della famiglia Wittelsbach, e di Ludovica di Baviera, che invece apparteneva al ramo principale della stessa famiglia reale.

Nonostante il matrimonio dei suoi genitori non fosse felice, a causa dei molti tradimenti del duca Massimiliano, dai quali nacquero anche diversi figli “illegittimi”, la sua infanzia trascorse piuttosto serenamente, tra Monaco, nel palazzo di famiglia, durante il periodo invernale, e i mesi estivi nel castello di Passenhofen, residenza alla quale la giovane duchessa rimase legata per tutta la vita, dal momento che si trovava immersa nella natura, che lei amava molto. Inoltre crebbe relativamente libera dagli obblighi di comportamento sociale solitamente imposti alla nobiltà mitteleuropea del 19° secolo, in modo più semplice e spontaneo, e fin da piccola venne abituata ad occuparsi delle persone più povere e bisognose.

Quando ebbe quattordici anni, s’innamorò perdutamente del conte Richard S., un giovane scudiero del duca Massimiliano, che però, non essendo ritenuto un “buon partito”, venne presto allontanato dal palazzo e inviato altrove; non molto tempo dopo ritornò, ma poi si ammalò e presto morì: il cuore della ragazzina a questo punto si spezzò, ed ella si rinchiuse in sé stessa e cominciò a scrivere poesie sul suo primo amore sfortunato.

IL MATRIMONIO CON FRANCESCO GIUSEPPE, IMPERATORE D’AUSTRIA: Per tentare di consolarla, nell’Agosto del 1853, all’età di sedici anni, sua madre la duchessa Ludovica la portò con se e la sorella maggiore Elena a Ischl, la residenza estiva del giovane Imperatore Francesco Giuseppe, dove, durante i festeggiamenti per il compleanno di quest’ultimo, aveva intenzione di annunciare pubblicamente il fidanzamento tra lui e sua figlia Elena, come aveva concordato con sua sorella Sofia, madre di Francesco Giuseppe; ma quel giorno il giovane fu letteralmente conquistato, invece, da Elisabetta, che, così intimidita com’era in mezzo a tutta quella gente di alto rango, ne fu consapevole soltanto in un secondo momento, quando sua madre gliene parlò apertamente. Così, il giorno seguente, le chiese se fosse accondiscendente alle nozze con lui, e lei accondiscese.

Vennero allora avviate tutte le trattative con la Santa Sede, per ottenere il consenso del Papa, in quanto i due futuri sposi erano tra loro primi cugini: ma poiché a quell’epoca questo avveniva di frequente all’interno delle casate nobiliari, la loro stretta parentela non venne tenuta in conto, e l’autorizzazione papale fu ottenuta.

Da quel momento Elisabetta dovette sottoporsi a studi intensivi, allo scopo di colmare le numerose lacune della sua istruzione, e dovette quindi imparare in breve tempo l’Italiano, il Francese e, in particolare, la storia dell’Austria. Il 23 Aprile 1854 fece così il suo ingresso ufficiale a Vienna, e il 24 furono celebrate le nozze tra lei e Francesco Giuseppe.

Ma la sua nuova vita alla corte di Vienna non si presentava affatto facile, dovendosi lei adeguare alle rigide regole di questa, caratterizzata ancora da un severo “cerimoniale spagnolo”: ella dovette quindi rinunciare alle sue abitudini più semplici e ai suoi affetti, e ben presto ciò le causò un profondo malessere psicofisico, con febbre, tosse e stati di ansia.

L’arciduchessa Sofia, madre dell’Imperatore, s’impegnò così intensamente per rendere la nuora una “perfetta imperatrice”, aderendo così strettamente all’etichetta di corte, da finire per apparire ai suoi occhi come una donna malvagia.

I FIGLI: Nel 1855 Elisabetta diede alla luce la sua prima figlia, che venne chiamata Sofia, in onore della nonna paterna, la quale volle occuparsi di lei personalmente; poco più di un anno dopo nacque la seconda bimba, Gisella, e anche lei fu “presa in consegna” dalla nonna. Ma la giovane imperatrice riuscì finalmente a far valere i suoi diritti di moglie e di madre, portando con sé Sofia nel viaggio che fece in Italia con Francesco Giuseppe, nell’Inverno tra il 1856 e il 1857; si riavvicinò così anche al marito, spesso compiacente nei confronti dell’arciduchessa sua madre.

Durante il viaggio in Italia, Elisabetta si rese conto che l’Impero degli Asburgo non era certo così amato dalla popolazione come lo era in Austria, a causa del severo regime militaresco che questo imponeva ai popoli ad esso sottoposti; ella non ricevette dunque l’acclamazione festante della folla alla quale era abituata in Austria, ciononostante in essa traspariva, come solito, una grande curiosità nei suoi confronti, dovuta alla sua fama di donna meravigliosamente bella.

Seguì poi un viaggio in Ungheria, nel quale ancora dovette imporsi per portare con sé le bambine; purtroppo, però, durante questo la piccola Sofia si ammalò e morì: profondamente addolorata e inoltre in preda ai sensi di colpa per aver insistito ad avere la bimba con sé, al ritorno a Vienna ella si chiuse in sé stessa e affidò l’educazione di Gisella alla suocera.

Nel 1858 mise al mondo il suo terzogenito, Rodolfo, principe ereditario dell’Impero Austriaco; il parto fu difficoltoso ed ella ne risentì fino ad ammalarsi, e poiché fino all’Inverno le sue condizioni non erano ancora migliorate, intervennero in suo aiuto sua madre la duchessa Ludovica e il medico di famiglia dei Wittelsbach.

LA MALATTIA E LA GUERRA: La sua salute sembrava migliorare soltanto quando si trovava in compagnia della sua famiglia bavarese. L’anno 1859 fu difficile anche per l’Impero, e quando le truppe austriache furono sconfitte nella battaglia di Magenta, durante la seconda Guerra d’Indipendenza Italiana, ella volle accompagnare Francesco Giuseppe fino alla sua partenza per andare a comandare personalmente l’esercito; mentre il marito era in guerra, cadde in uno stato di angoscia profonda, tanto da chiedergli di poterlo raggiungere: ricevutone però un diniego, da quel momento s’impose un regime di diete estreme e faticose cavalcate, e rifiutò di partecipare a tutti gli impegni sociali che l’arciduchessa Sofia le organizzava. Quando i franco-piemontesi vinsero definitivamente gli Austriaci con la battaglia di Solferino, molti feriti furono portati in Austria, ed ella fece allestire per loro un ospedale militare nel castello di Laxenburg. Infine, con l’armistizio di Villafranca, l’Austria dovette rinunciare alla Lombardia, une delle provincie più ricche dell’Impero.

LA CRISI CONIUGALE: Contemporaneamente alla crisi dell’Impero Austriaco del 1859-60, cominciò anche la crisi coniugale tra lei e Francesco Giuseppe, dovuta alle voci riguardanti le infedeltà di quest’ultimo; “reduce” da quelle di suo padre nei confronti di sua madre, Elisabetta reagì con un atteggiamento di sfida: organizzando balli di corte ai quali invitava i giovani aristocratici viennesi senza i loro genitori, cosa assolutamente contraria all’”etichetta”. E a Luglio del 1860 lasciò improvvisamente Vienna assieme a Gisella e si diresse nella sua amata residenza d’infanzia, a Possenhofen; tornò però nell’Agosto, per il compleanno del marito, per evitare uno scandalo.

In seguito la sua salute peggiorò molto, così il suo medico, specialista in malattie polmonari, le consigliò di recarsi in un paese dal clima caldo, e la scelta cadde su Madeira, nell’arcipelago portoghese, dunque ben lontano da Vienna, la qual cosa fece indignare ulteriormente la corte viennese. La storica Brigitte Hamann sospettò che la malattia di cui soffriva l’imperatrice, che si acuiva a contatto con tale corte, portandola a reagire con drastiche cure dimagranti ed intensi esercizi fisici, fosse una forma di Anoressia Nervosa, che si affievoliva nel momento in cui lei se ne allontanava.

REGINA D’UNGHERIA: Nel Giugno del 1867, all’età di trent’anni, Elisabetta venne incoronata Regina d’Ungheria, inquieta provincia dell’Impero, per la cui cultura ella nutriva un profondo interesse, nato grazie alle lezioni del conte Majlath; gli Ungheresi, consapevoli di ciò, speravano che l’imperatrice potesse influenzare positivamente il marito nei loro confronti.

Nel 1868 nacque la sua ultima figlia, da lei prediletta, Maria Valeria, della cui educazione volle occuparsi personalmente, a differenza di quanto era accaduto con gli altri figli; la piccola fu fatta nascere volutamente a Buda, all’epoca capitale dell’Ungheria, proprio come omaggio della regina ai suoi sudditi preferiti.

I FATTI DI MAYERLING E LA MORTE:

Il 1879 fu l’anno in cui Elisabetta e Francesco Giuseppe festeggiarono le nozze d’argento. Dieci anni più tardi, nel 1889, il figlio Rodolfo, principe ereditario dell’Impero Austro-Ungarico, morì suicida insieme alla sua amante, la baronessa Maria Vetsera-probabilmente da lui stesso uccisa- nel castello di Mayerling, nella Bassa Austria: dopo questa ulteriore tragedia, Elisabetta si vestì solo di nero, in segno di lutto, e smise di scrivere poesie e di festeggiare le festività natalizie, attività che prima aveva sempre amato; riprese inoltre i suoi viaggi in Europa, in particolare in Grecia, paese che amava molto, forse nel tentativo di superare la profonda depressione nella quale era caduta, ma evitando il più possibile di apparire in pubblico e nelle corti.

Infine, nel Settembre del 1898, all’età di sessant’anni, mentre si trovava in incognito a Ginevra, in Svizzera, soggiornando all’”Hotel Beau Rivage”, sul lungolago ginevrino, e stava aspettando un battello per Montreux, l’italiano anarchico Luigi Lucheni la pugnalò al petto con un colpo preciso, causandone la morte, un’ora più tardi. Interrogato in seguito riguardo al suo gesto, egli lo motivò con il suo odio per i ricchi, dal momento che lui era povero, nonché anarchico. Davvero un amaro destino per questa celebre “principessa”, che, nonostante l’ossessione per la propria bellezza, nel corso della sua tormentata esistenza si dimostrò sempre così attenta e sollecita verso coloro che non avevano potuto godere dei suoi stessi privilegi… Vittoria Montemezzo