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L’Istituto Superiore di Palermo simbolo d’Inclusione

A Palermo, nel suo centro storico, esiste una scuola superiore, la “Francesco Ferrara”, che ha la percentuale di studenti stranieri più alta, pari a poco più del 20%; essi sono nuovi arrivati in Italia e appartenenti alla seconda generazione. E per dare un’idea della loro diversità, sono di religione cattolica, evangelica, musulmana e indù. La vocazione di questa scuola è infatti da sempre quella dell’inclusione e dell’integrazione; una sfida verso la modernità non semplice, in realtà, ma che giustamente parte proprio dall’educazione, per dare ai ragazzi “una chance importante di vita”, “uno strumento di riscatto sociale”: di questo è profondamente convinta la nuova dirigente, Ilaria Virciglio, che quest’anno ha proposto e avviato un nuovo progetto sull’intercultura, che accomuna i vari indirizzi della scuola. Nonché un progetto, già presente da anni, di lingua italiana, che ne dia i rudimenti ai nuovi iscritti: essere svantaggiati sotto il profilo linguistico crea infatti non poche difficoltà, favorendo la dispersione e l’abbandono scolastico; naturalmente, le famiglie straniere presenti in Italia da più tempo risultano più avvantaggiate rispetto a quelle arrivate da poco, e quindi per queste ultime la conoscenza della nostra lingua diventa prioritaria. A questo proposito, la scuola ha inoltre una convenzione con Itastra, la Scuola di Lingua Italiana per Stranieri dell’Università di Palermo, per dare continuità al suo percorso d’integrazione.

Conoscersi l’un l’altro, anche nelle rispettive differenze, è in effetti la prima forma d’inclusione sociale, perché i pregiudizi derivano spesso proprio da una scarsa conoscenza reciproca; è per questo motivo che il progetto “We are stronger together” (= “Siamo più forti insieme”) della dirigente Virciglio parte proprio dall’interscambio diretto tra gli studenti. Tale progetto prevede anche, a fine anno scolastico, uno spettacolo in cui i ragazzi appartenenti alle diverse culture si esibiranno in canti e danze tradizionali dei loro rispettivi paesi.

Ma il lavoro dell’Istituto Superiore Ferrara non si ferma qui: quest’anno realizzerà anche un protocollo d’intesa con l’associazione “Libera” contro le Mafie, chiamato “Fuori dal Giro”, per contrastare le dipendenze e l’uso del crack, mediante uno sportello psicologico aperto all’intera comunità scolastica, famiglie degli studenti comprese; inoltre ha aderito al protocollo dell’Ufficio Scolastico Regionale “A scuola di pace e non violenza” insieme all’Arcidiocesi di Palermo; e per quanto riguarda la solidarietà, partecipa al Banco Alimentare e Farmaceutico.

Sostanzialmente, dunque, si tratta di una scuola “fatta su misura” per promuovere i diritti e i doveri di una vera società civile, contro ogni forma di violenza, fondata sulla conoscenza, il rispetto, la collaborazione e la convivenza pacifica. Anche partecipando alle giornate internazionali come quella per la lotta alla violenza contro le donne, e al concorso letterario “L’amore che ti racconto”, dell’Ordine degli Avvocati di Palermo, ottenendo riconoscimenti importanti a due propri studenti; e anche alla “festa dell’albero”, attraverso un’iniziativa di cura e pulizia di uno spazio pubblico vicino.

Emblematica dell’arricchimento teorico e pratico nella crescita dei giovani apportato da questo Istituto è l’esperienza di un suo studente, proveniente dalla Costa d’Avorio, Marcellin Assande Kouassi, di 21 anni, che è stato una comparsa nel film del regista Matteo Garrone, candidato agli Oscar, sull’ Immigrazione Africana in Italia, “Io Capitano”; grazie al supporto ricevuto in questa scuola, il ragazzo è ora fortemente intenzionato a proseguire gli studi all’Università, ed ha imparato ad inserirsi in un contesto sociale proprio “esercitandosi” come rappresentante d’Istituto nella Consulta Provinciale Alunni del Ferrara. Dove inoltre ha potuto sviluppare la sua passione per la musica e la fotografia, e fare le sue prime esperienze di lavoro nella ristorazione e come fattorino e addetto all’accoglienza, accanto all’amico Filippo Maniscalco; perché questo Istituto prevede, infatti, specialmente nei primi anni di curriculum scolastico dei ragazzi, l’accompagnamento in un percorso aderente ai loro desideri e inclinazioni.

Insomma, proprio ciò che auspica la preside Ilaria Virciglio, considerando la sua nuova importante esperienza presso questa scuola così speciale: seminare con pazienza e costanza per ottenere ottimi frutti in futuro, quelli dell’integrazione, della convivenza civile e della pace.

Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

La cultura come cura

Il termine inglese “Welfare” ha il significato di “star bene, benessere”, e, per “estensione”, è diventato indicativo dell’insieme delle politiche sociali attuate dallo Stato nei confronti dei cittadini allo scopo di proteggerli e sostenerli, specialmente durante gli “avvenimenti” della vita che comportano rischi, problemi e disagi; tali politiche sono quindi rivolte particolarmente alle categorie di persone più fragili e bisognose, quali bambini, poveri, disabili e anziani.

Ma cosa s’intende per Welfare “culturale”? Esso non è altro che un nuovo modello di promozione del benessere e della salute delle persone e delle comunità, attraverso specifiche attività culturali, artistiche e creative; nuovo, almeno, in Italia, dal momento che nei paesi scandinavi, nel Regno Unito e in Canada viene sperimentato già da tre decenni. Tale modello è stato riconosciuto    efficace anche dall’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e presuppone la collaborazione integrata tra professionisti di discipline diverse, e cioè quelle appartenenti alle istituzioni sociali e della salute in sinergia con quelle delle istituzioni di arte e di cultura. Le attività culturali diventano così un “fattore:

  1. di promozione della salute […];
  2. di benessere soggettivo e di soddisfazione per la vita […] e potenziamento delle risorse e della capacità di apprendimento;
  3. di contrasto alle disuguaglianze di salute e di coesione sociale […];
  4. d’invecchiamento attivo, contrasto alla depressione e al decadimento psicofisico […];
  5. d’inclusione e di potenziamento delle risorse per persone con disabilità anche gravi o in condizione di svantaggio o marginalizzazione anche estremi (ad esempio senza fissa dimora, detenuti ecc.);
  6. complementare di percorsi terapeutici tradizionali;
  7. di supporto alla relazione medico-paziente, attraverso le “medical humanities” e la trasformazione fisica dei luoghi di cura;
  8. di supporto alla relazione di cura, anche e soprattutto per i “carer” (cioè coloro che si prendono cura) non professionisti;
  9. mitigante e ritardante per alcune condizioni degenerative, come demenze e morbo di Parkinson.”

[dalla definizione della vicepresidente del “Cultural Welfare Center” A. Cicerchia, Al. Rossi Ghiglione, C. Seia, Welfare Culturale, Treccani, Roma 2020]

Alla cultura viene dunque riconosciuto il ruolo fondamentale e “scientificamente” provato di essere un determinante della salute individuale e sociale; fare in modo che ciò si realizzi è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

“La Cultura come Cura” (di cui si è parlato all’incontro “Welfare è cultura” promosso a Brescia nel Settembre 2023, anno in cui Bergamo e Brescia sono state nominate Capitali della Cultura) non è da intendere però soltanto nel suo aspetto “terapeutico”, ma anche nel suo potere “trasformativo” degli individui e delle comunità: un “potere”, cioè, che consenta loro di uscire dalla propria condizione di fragilità. In questo contesto diventa quanto mai necessaria una nuova formazione del maggior numero possibile di operatori del sociale, che li porti cioè ad un cambiamento “culturale” e di concetto, appunto, spingendoli così a sperimentare nuovi progetti e metodi di lavoro comunitari, incontrandosi e dialogando con gli operatori della cultura.

A questo proposito, l’Italia non presenta attualmente politiche nazionali di Welfare Culturale, bensì soltanto realtà territoriali e reti locali, che hanno realizzato però progetti molto positivi; eccone alcuni esempi tra i più rilevanti:

  • IL “CIRCO SOCIALE” di “Casa Circostanza”, nato nel 2012 nel quartiere Barriera di Milano: esso, ci illustra l’operatrice Giovanna Sfriso, è un centro aggregativo rivolto a persone di tutte le età, e che promuove l’inclusione delle persone in condizione di fragilità, ospitando quindi scuole, gruppi di ragazzi, adolescenti e disabili, e proponendo loro laboratori di circo sociale, allo scopo di “crescere insieme”; ma che si muove anche sul territorio, recandosi esso stesso nelle scuole, in piazze, strade, giardini e nei centri diurni per disabili.
  •  L’ ASSOCIAZIONE “TEDACA’”, una compagnia teatrale fondata nel 2005 a Torino dall’assistente sociale teatrante Si

mone Schinocca: essa ha realizzato lavori incentrati sulla povertà, la migrazione, la discriminazione di genere, i diritti, il carcere e la scuola.

  • LO “SCIROPPO DI TEATRO”: una sperimentazione teatrale ideata da Silvano Antonelli -da 50 anni protagonista del teatro per ragazzi in Italia- partita nel 2021, e che, alla sua terza edizione nel 2023, ha coinvolto 11mila bambini, fra i 3 e gli 11 anni: essi sono stati inviati a teatro, insieme ai loro accompagnatori, con un “voucher-ricetta” prescritto da ben 253 pediatri aderenti all’iniziativa, per un costo di 3 Euro a spettacolo.
  • I MUSEI TOSCANI PER L’ ALZHEIMER: “La regione Toscana ha emanato nel 2019 un decreto in cui riconosce le proposte museali tra le prestazioni previste per la cura e il sostegno familiare nei confronti delle persone con demenza”, ci spiega Chiara Lachi , educatrice museale; dal momento che queste patologie coinvolgono la persona che ne è colpita e la sua famiglia, l’ambiente fisico e relazionale di un luogo rientrante nella categoria di “patrimonio museale” (comprendente musei veri e propri ma anche spazi espositivi, biblioteche, orti botanici ecc.) diventa quindi determinante per la possibilità di mantenere una buona qualità di vita.

In conclusione, penso che dovremmo auspicare che tali esempi, dimostratisi così efficaci, possano continuare ad espandersi nel nostro paese…

Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Si sta sviluppando un intenso dibattito sull’importanza dell’inclusione, un tema che va oltre il contesto scolastico per toccare tutti gli ambiti sociali. Presso la scuola Oliver Twist di Como, si sta valutando come rendere l’istituto veramente inclusivo per ogni studente, sia esso con disabilità o normodotato. Nonostante l’esistenza di regolamenti come il PEI (Piano Educativo Individualizzato), il RAV (Rapporto di Autovalutazione) e il PAI (Piano Annuale per l’Inclusività), oltre alle Linee Guida, gli sforzi compiuti finora sembrano insufficienti.

L’obiettivo dell’inclusività è porre ogni studente al centro del processo educativo, rispettando i ritmi e le peculiarità individuali, come enfatizzato da un documento ministeriale del 2001. È fondamentale che tutte le istituzioni, dalle scuole agli organi collegiali, e tutto il personale docente, inclusi gli insegnanti di sostegno, lavorino in sinergia per raggiungere questo scopo.

Tuttavia, l’inclusione non dovrebbe limitarsi ad essere un concetto puramente legislativo o teorico; è necessario che si traduca in azioni concrete e pratiche. È imperativo promuovere e diffondere la conoscenza dell’inclusività a beneficio di tutti.

In conclusione, è essenziale che ci muoviamo congiuntamente verso lo stesso obiettivo, sottolineando il principio che, quando c’è la volontà, si possono superare le barriere e realizzare un ambiente veramente inclusivo per tutti.

Cristina Zangone

Sono nata a Milano e mi sono formata nel campo dell’informatica. Nonostante il mio attuale impegno nel mondo del lavoro, con due occupazioni, non ho mai smesso di studiare. La mia passione è viaggiare e scoprire nuovi luoghi, accompagnata spesso dalla musica che amo ascoltare. Nonostante le sfide della mia condizione, essendo una persona disabile e utilizzando una carrozzina, affronto la vita con determinazione e curiosità.

Sì, i videogiochi possono effettivamente mettere a rischio l’udito. L’esposizione a volumi elevati attraverso cuffie o altoparlanti durante il gioco può causare danni all’udito, come sordità o acufene, che si manifesta con ronzii nell’orecchio. Nel 2022, si è stimato che ci siano stati oltre 3 miliardi di giocatori a livello globale, con bambini e adolescenti tra i più esposti a questo rischio.

Finora, l’attenzione si è concentrata sui rischi legati all’esposizione al rumore in ambienti come concerti e discoteche, trascurando l’impatto potenziale dei videogiochi. I giovani, in particolare, tendono a isolarsi dai rumori esterni utilizzando cuffie e altoparlanti a volumi molto elevati per immergersi completamente nell’esperienza di gioco.

Uno studio pubblicato sul British Medical Journal Public Health, che ha coinvolto 54.000 persone di diverse nazionalità, ha evidenziato i rischi associati all’ascolto prolungato a volumi elevati. Nonostante sul mercato esistano dispositivi dotati di segnali luminosi per limitare il volume massimo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda di moderare il volume in base alla durata dell’esposizione: più lungo è il tempo trascorso con dispositivi acustici, minore dovrebbe essere il volume impostato.

L’OMS stima che oltre 430 milioni di persone nel mondo soffrano di ipoacusia invalidante, evidenziando l’importanza di adottare misure preventive per proteggere l’udito, soprattutto tra i giovani videogiocatori.

Cristina Zangone

Sono nata a Milano e mi sono formata nel campo dell’informatica. Nonostante il mio attuale impegno nel mondo del lavoro, con due occupazioni, non ho mai smesso di studiare. La mia passione è viaggiare e scoprire nuovi luoghi, accompagnata spesso dalla musica che amo ascoltare. Nonostante le sfide della mia condizione, essendo una persona disabile e utilizzando una carrozzina, affronto la vita con determinazione e curiosità.

Un fenomeno che si sta diffondendo anche in Italia -Parte 1

Il fenomeno dell’hikikomori, termine giapponese che significa “ritirarsi” o “stare in disparte”, rappresenta una problematica sociale emergente che va oltre i confini del Giappone, estendendosi anche in Europa e negli Stati Uniti. Originariamente identificato nella seconda metà degli anni ’80, l’hikikomori coinvolge principalmente giovani di età compresa tra i 14 e i 30 anni, con una prevalenza maschile che varia tra il 70% e il 90%. Sebbene le statistiche ufficiali giapponesi rivelino una significativa presenza del disturbo anche tra gli over 40, il fenomeno tende a cronicizzarsi partendo dall’adolescenza.

Il Giappone, con circa 1,5 milioni di casi, è stato il primo a riconoscere l’hikikomori, attribuendo la sua diffusione alla pressione culturale per il successo sociale. In Italia, si stimano tra i 50 e i 70 mila casi, focalizzandosi principalmente sugli studenti. L’hikikomori si manifesta con il ritiro volontario dalla vita sociale, scolastica o lavorativa, spesso scatenato dalla paura e dallo sconforto nei confronti della società.

Marco Crepaldi, presidente dell’associazione “Hikikomori Italia”, identifica diverse cause alla base di questo comportamento:

– **Caratteriali:** Gli hikikomori sono spesso individui sensibili e intelligenti che faticano a instaurare relazioni sociali a causa della loro timidezza.

– **Familiari:** È frequente la presenza di un padre emotivamente e fisicamente distante e di una madre iperprotettiva, che ostacola il processo di distacco del figlio. In Giappone, la divisione dei ruoli familiari e le aspettative lavorative possono creare un ambiente soffocante per i giovani.

– **Scolastiche:** Il rifiuto della scuola, spesso legato a esperienze di bullismo, è un segnale precoce del disturbo.

– **Sociali:** La percezione negativa della società e la pressione verso il successo possono spingere l’individuo a isolarsi completamente, al punto da rinchiudersi in camera e rifiutare qualsiasi contatto con l’esterno.

L’hikikomori è quindi un’espressione estrema di ritiro sociale che richiede una maggiore comprensione e interventi mirati per offrire supporto adeguato a chi ne soffre, promuovendo un’integrazione sociale sana e rispettosa delle esigenze individuali.

Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.