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Sappiamo che siamo diversi ed è per questo che in un mondo “standardizzato” esistono le “personalizzazioni”.

L’importante, però, è che la base della progettazione vada bene per tutti e non soltanto ad alcune categorie di persone.

Perché, a 30 anni dalla legge 13 sull’abbattimento delle barriere architettoniche, esistono ancora mezzi di trasporto inaccessibili ai disabili o luoghi pubblici, peggio ancora se dedicati proprio alla disabilità, dove per entrare bisogno fare una rampa di scale senza nessuna ascensore?

Perchè bisogna sempre tribolare per trovare un albergo che rispecchi i principi basilari dell’accessibilità e adattabilità?
Questo accade non solo in Italia, ma anche in molti paesi europei che riteniamo più avanti di noi: letti matrimoniali dove il disabile è obbligato a dormire con l’accompagnatore (Francia, Irlanda, Regno Unito…), bagni classificati come accessibili… con la vasca ed un seggiolino dove bisogna essere dei saltatori per entrare (Regno Unito e Irlanda), alberghi con 1000 camere ed una sola adatta ai disabili (Giappone).

Perchè l’ingegneria aeronautica non ha ancora messo a punto un sistema che permetta alle persone disabili di salire sull’aereo come tutti gli altri senza dover subire manipolazioni e palpeggiamenti, lunghe attese alla partenza e soprattutto agli arrivi, con relativi avvilimenti e umiliazioni?

Andiamo da Milano a Londra in un paio d’ore, ma il disabile ne aspetta sempre almeno un’altra per poter scendere dall’aereo.

Il problema è che nessuno si vergogna di questa situazione. Ci stupiamo positivamente quando le cose funzionano come nell’Hotel NH di Savona o nel McWilliam di Claremorris in Irlanda (li cito perché si distingono positivamente e meritano), dove in forme diverse le camere sono tutte accessibili e hanno risolto il problema della “discriminazione” facendole tutte alla stessa maniera. Mentre invece dovremmo stupirci del contrario, cioè di come mai, nel terzo millennio, con tutta la tecnologia e lo sviluppo, anche culturale che abbiamo avuto, debbano esistere ancora queste situazioni e noi qui a parlarne.

Articolo a cura di Claudio Fontana

Concrete Onlus è orgogliosa di lanciare il suo primo

CONCORSO FOTOGRAFICO!

Il tema del concorso sarà: #daiuncalcioallebarriere!

Scattatevi una foto o un selfie a tema e postatelo sulla nostra pagina Facebook o inviatecelo via email all’indirizzo webmaster@concreteonlus.org (oggetto della mail Concorso Fotografico).
Gli autori dei tre scatti che reputeremo più originali, saranno premiati con una GitAccessibile in una destinazione a loro scelta!

Il termine ultimo per inviarci le vostre foto è domenica 23 settembre 2018 alle 23:59.

I vincitori saranno annunciati nella giornata di Lunedì 24 settembre 2018.
 
Un ringraziamento speciale al CAV – Coordinamento Associazioni Volontariato – di Rozzano, che ci appoggia in questa iniziativa.
 
Vi ricordiamo che abbiamo anche un nuovissimo profilo Instagram!
Le foto che ci invierete saranno raccolte in un album sulla nostra pagina Facebook e pubblicate anche sul nostro account Instagram (ovviamente sempre con nome dell’autore dello scatto). Fatele vedere anche ai vostri amici!
Che aspettate? Prendete i vostri smartphone o macchine fotografiche e scatenate la vostra creatività!

 

Quanti di noi, pensando ai carcerati, hanno mai pensato che dietro quelle sbarre potrebbero esserci anche dei disabili? Quanti di noi hanno realizzato di non averci mai pensato, ma che effettivamente esiste anche questa realtà?

Ricordandoci che la disabilità può essere di tante tipologie, da quella fisica a quella mentale, nel 2017, l’1 % dei carcerati in Italia è diversamente abileLe condizioni delle carceri italiane sono sempre state un tema rovente da trattare, a causa delle condizioni di sovraffollamento e precarie delle strutture stesse, in questo caso per un disabile la pena diventa quindi “doppia”.

La giornalista dell’Espresso, Arianna Giunti, nel 2017 ha provato ad indagare sulle problematiche legate alla detenzione dei disabili a causa dei continui attentanti di suicidio da parte di costoro, dichiarando che “Sono detenuti che non hanno una famiglia o persone che possano garantire loro un domicilio alternativo al carcere, e che quindi devono rimanere a scontare la propria condanna – anche quando minima – fra le mura carcerarie inadatte ad accoglierli. Ad aggravare il problema, poi, c’è la carenza cronica di strutture sanitarie. Si contano sulle dita di una mano, soprattutto quelle per pazienti affetti sia da disabilità fisica che da patologie mentali.
Per altri, invece, il problema è a monte: il Tribunale di sorveglianza respinge le istanze di scarcerazione, anche di fronte a condizioni cliniche oggettivamente gravi. E allora il detenuto si ritrova a dover scontare la propria condanna in condizioni precarie, aggravando la propria salute.”

Inoltre, la giornalista, analizza la situazione italiana informandoci che “Esiste però un unico carcere in tutto il Paese (Parma) privo di barriere architettoniche. Tutti gli altri sono inadeguati. Basti sapere che in tutto San Vittore si conta una sola cella senza scalini e con porte abbastanza larghe da ospitare detenuti su sedia a rotelle. Poi si arriva ai paradossi. Perché alcuni penitenziari vantano invece reparti modello adatti ai disabili, ma mai utilizzati. Come Busto Arsizio (Varese), dove un reparto nuovo di zecca attende ormai da cinque anni di essere inaugurato.”

Nonostante queste condizioni sgradevoli, lo scorso anno si è concluso in Umbria il primo corso di base formativo per “detenuti assistenti di persona”, un progetto sperimentale sviluppato nella Casa Circondariale di Terni e dedicato alle persone in regime di detenzione, che si è rilevato di grande interesse e di utilità vista l’alta adesione dei partecipanti.

Lo scopo di questo progetto è di educare carcerati al ruolo di caregiver, ossia, una figura professionale formata per offrire un servizio di assistenza, supporto e primo soccorso alla persona affetta da qualunque tipologia di disabilità.

Questo progetto, non solo ha portato cambiamenti notevoli nella qualità di vita dei disabili in cella che hanno potuto avere questo sussidio, ma è stato principalmente una grande esperienza di formazione e di “redenzione” per i carcerati che hanno potuto coprire questo ruolo.

Quindi sfatiamo il mito pessimista che dice “Più dai, meno ricevi”, in questo caso abbiamo un grande esempio di come, chiunque, anche le persone che hanno perso la speranza di potersi riscattare nella società perché si sono macchiati di qualche colpa, possono rinascere e cambiare grazie all’aiuto che loro mettono al servizio dei compagni di cella più in difficoltà.

– articolo a cura di Lavinia Fontana

 

A NOI SALTARE LE BARRIERE

Da quasi trent’anni, dall’avvento della legge 13/89, in Italia parliamo di barriere architettoniche con sempre maggiore coscienza e competenza. Di passi avanti ne abbiamo fatti tanti, anche se molto resta da fare.

Ma anche il giorno che saremo capaci di progettare e costruire in modo adeguato per tutte le persone con le loro diversità, ci saranno sempre degli ostacoli da superare, dati dagli imprevisti temporanei, dall’ottusità delle persone  e delle norme, dalla nostra giusta voglia di superare, almeno di un po’, i nostri limiti.

E allora il nostro approccio verso le “barriere architettoniche” deve giustamente esigere che la realtà cambi, anzitutto quella degli spazi e dei servizi pubblici e rivolti a tutti. Ma nel frattempo non ci dobbiamo fermare: se un luogo è bello e c’è un gradino non possiamo pensare che ce lo tolgano in un giorno; siamo noi che dobbiamo trovare la maniera di superarlo, di aggirarlo, per soddisfare il nostro bisogno di vedere quel luogo.

La finalità dovrebbe essere che tutti possano godere della vita con uguali possibilità – e non in maniera uguale – e quindi il superamento degli “ostacoli architettonici” è uno strumento al servizio di questo fine. Riflettiamo su questo, adottiamo questo approccio e probabilmente ci renderemo conto che il mondo può essere molto più fruibile di quello che pensiamo, se lo vogliamo e se lo vogliamo insieme.

– articolo a cura di Claudio Fontana

 

“La vita é una figata!”, dovrebbe diventare il  mantra di ogni essere umano, proprio come ci dimostra la nostra neo eroina nazionale Beatrice Maria “Bebe” Vio, medaglia d’oro di fioretto nelle paralimpiadi di Rio 2016.
La giovane campionessa trevigiana é un esempio vivente di come la vita dovrebbe essere considerata un dono prezioso e per questo vissuta anche come tale, nonostante le sventure che si presentano nel cammino.

Alla verde età di 11 anni, Bebe perse l’uso degli arti superiori ed inferiori a causa di una meningite fulminante, ma non per questo decise di mollare la sua passione e continuare ad inseguire il suo sogno, che sta prendendo sempre più forma e siamo sicuri che sia solo l’inizio di una grande carriera, perché insieme alle sue doti atletiche, sta portando avanti la battaglia contro la discriminazione del “diverso”, a colpi di battute ed autoironia.

Attualmente ci troviamo in un periodo storico nel quale la conoscenza e la scienza sono in continuo progresso, che però, si muovono parallelamente con la paura, l’odio e l’individualismo.
Bebe, la piccola schermitrice italiana , nella sua semplicità ci sta dimostrando come in realtà siano barriere “architettoniche” che noi stessi ci creiamo permettendo così agli altri di etichettarci ed isolarci.

“La vita é una figata” non é solo il suo motto ma anche il nome del programma da lei presentato, in onda la domenica pomeriggio su Rai 1, nel quale ogni ospite, famoso e non, può aprirsi e mostrare le sue debolezze e cicatrici, rendendole invece, dei punti di forza.
È molto incoraggiante sapere che esistono ancora persone che nel loro piccolo cercano di migliorare questo mondo, e ancora meglio se sono giovani, donne e disabili!

Grazie Bebe!
E che la vita possa essere una gran figata per tutti!!!

Articolo a cura di Lavinia Fontana