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In quarant’anni di attività con le persone disabili, migliaia sono gli individui con i quali ho avuto a che fare. Disabilità e personalità differenti, con capacità e attitudini le più diverse, ma tutte con delle aspirazioni che volevano essere realizzate.

Anche le famiglie da cui provenivano queste persone sono state molto variegate, con coscienza e aspettative verso i propri figli a volte esagerate, a volte troppo riduttive nel valutare le possibilità di successo.
Nella maggior parte dei casi famiglie che, nonostante le difficoltà oggettive che una disabilità comporta, a volte aggravate dalle ristrettezze economiche, comunque progettavano il futuro dei loro figli e, per quanto possibile, li coinvolgevano in questa operazione.

Mi è capitato però, talvolta, di imbattermi in famiglie che per iperprotezione, senso di colpa ( ma di quale colpa stiamo parlando?), vergogna (ma di che cosa?) hanno negato ai lor figli, perchè disabili, la possibilità di avere, o almeno tentare, una vita piena come tutti gli altri, che significa amicizie, scuola, lavoro, amori, una nuova famiglia propria.
Famiglie soprattutto di estrazione medio-alta, con buone condizioni economiche, che finchè relativamente giovani hanno pensato di potersi sostituire in tutto e per tutto “agli altri”, che hanno tenuto i figli “separati dal mondo”.

Famiglie che, con il passare del tempo non hanno più avuto la forza e la voglia di accudire in maniera totale i propri figli; figli che con il passare del tempo si sono resi conto, impotenti, di quanto la vita fosse passata senza che loro avessero potuto realizzarsi.
In questo panorama che si ripete sempre, a noi che siamo operatori esperti, motivati e preparati su questo tema, il compito di intervenire, appoggiare, stimolare con il dovuto garbo ma anche con forza ed energia, affinche dall’inizo alla fine della sua vita, ognuno possa dire di aver soddisfatto questo DIRITTO AD UNA VITA PIENA … o almeno di averci provato.

Articolo a cura di Claudio Fontana

Vi riportiamo un articolo scritto dal Dottor Lorenzo Edera ed originariamente pubblicato sul Sole 24 Ore del 18 luglio 2017.

L’argomento è sicuramente delicato, ma può servire ad aprire ed abbattere ulteriori muri , che costringono la persona con disabilità in ambiti ancora poco esplorati e ancora con luci ed ombre.

Esperienze analoghe sono state fatte e realizzate in Regione Emilia Romagna.

Cè un’originale proposta di legge in Regione Lombardia.

A proporla sono i consiglieri del Movimento 5 Stelle. Il titolo è «Sperimentazione regionale per l’assistenza emotiva, affettiva e sessuale per persone disabili o con patologie invalidanti».

L’obiettivo sarebbe quello – come si legge nel testo proposto e depositato in Consiglio regionale – di garantire loro attività sessuale, in nome del «rispetto» e della «educazione».

Il documento spiega meglio che non si tratta di semplice assistenza sessuale, in quanto potrebbe risultare «riduttivo», ma di «assistenza all’emotività, all’affettività, alla corporeità e alla sessualità».

Il testo

L’ipotesi è che a aiutare questo percorso sessuale per disabili siano veri e propri assistenti sessuali: «un operatore professionale con orientamento bisessuale, eterosessuale o omosessuale che deve avere delle caratteristiche psicofisiche e sessuali “sane” (importanza di una selezione accurata degli aspiranti assistenti sessuali)….Questo operatore, formato da un punto di vista teorico e psicocorporeo sui temi della sessualità, permette di aiutare le persone con disabilità fisico-motoria e/o psichico/cognitiva a vivere un’esperienza erotica, sensuale e/o sessuale. Gli incontri si orientano in un continuum che va dal semplice massaggio o contatto fisico… fino a stimolare e a fare sperimentare il piacere sessuale dell’esperienza orgasmica».

Medically retired Coast Guard Lt. Sancho Johnson takes a break from training so that he can spend time with his wife, Shundra, during the Navy Trials in Ventura, Calif., May 29. Johnson will be competing in the seated shot put and discus and hand cycling. (Department of Defense photo by EJ Hersom)

Il nuovo operatore e l’albo

L’operatore si chiamerà «operatore del benessere sessuale». Per la formazione ci sarà bisogno di un corso specializzato e sarà «costituito presso l’assessorato competente della Regione un apposito registro dove iscrivere gli Oeas (operatori all’emotività, affettività e sessualità per persone con disabilità o patologie invalidanti».

I corsi (da almeno 200 ore) saranno gestiti da onlus, i costi saranno a carico dei partecipanti; la Regione Lombardia contribuirà con un rimborso stabilito.

I requisiti

Tra i requisiti richiesti ci sono l’idoneità psicofisica e titoli qualificanti in professioni preferibilmente sanitarie e sociologico-assistenziali. Ma anche «avere una situazione socio economica che consenta loro una vita civile anche senza i compensi derivanti da questa attività» e la garanzia di «riservatezza sulla attività come segreto professionale nei confronti di terzi; alla stessa riservatezza saranno tenuti i partner preventivamente informati».

Sarebbe anche prevista una sperimentazione triennale, per cui verrebbero stanziati 100mila euro all’anno.

Così è scritto nella proposta di legge n. 357 di iniziativa consiliare, firmata dai consiglieri Macchi, Buffagni, Carcano, Casalino, Corbetta, Fiasconaro, Maccabiani, Nanni e Violi, già trasmessa alle commissioni consiliari competenti dal presidente del Consiglio regionale Raffaele Cattaneo.

Articolo a cura di Lorenzo Edera

Quanti di noi, pensando ai carcerati, hanno mai pensato che dietro quelle sbarre potrebbero esserci anche dei disabili? Quanti di noi hanno realizzato di non averci mai pensato, ma che effettivamente esiste anche questa realtà?

Ricordandoci che la disabilità può essere di tante tipologie, da quella fisica a quella mentale, nel 2017, l’1 % dei carcerati in Italia è diversamente abileLe condizioni delle carceri italiane sono sempre state un tema rovente da trattare, a causa delle condizioni di sovraffollamento e precarie delle strutture stesse, in questo caso per un disabile la pena diventa quindi “doppia”.

La giornalista dell’Espresso, Arianna Giunti, nel 2017 ha provato ad indagare sulle problematiche legate alla detenzione dei disabili a causa dei continui attentanti di suicidio da parte di costoro, dichiarando che “Sono detenuti che non hanno una famiglia o persone che possano garantire loro un domicilio alternativo al carcere, e che quindi devono rimanere a scontare la propria condanna – anche quando minima – fra le mura carcerarie inadatte ad accoglierli. Ad aggravare il problema, poi, c’è la carenza cronica di strutture sanitarie. Si contano sulle dita di una mano, soprattutto quelle per pazienti affetti sia da disabilità fisica che da patologie mentali.
Per altri, invece, il problema è a monte: il Tribunale di sorveglianza respinge le istanze di scarcerazione, anche di fronte a condizioni cliniche oggettivamente gravi. E allora il detenuto si ritrova a dover scontare la propria condanna in condizioni precarie, aggravando la propria salute.”

Inoltre, la giornalista, analizza la situazione italiana informandoci che “Esiste però un unico carcere in tutto il Paese (Parma) privo di barriere architettoniche. Tutti gli altri sono inadeguati. Basti sapere che in tutto San Vittore si conta una sola cella senza scalini e con porte abbastanza larghe da ospitare detenuti su sedia a rotelle. Poi si arriva ai paradossi. Perché alcuni penitenziari vantano invece reparti modello adatti ai disabili, ma mai utilizzati. Come Busto Arsizio (Varese), dove un reparto nuovo di zecca attende ormai da cinque anni di essere inaugurato.”

Nonostante queste condizioni sgradevoli, lo scorso anno si è concluso in Umbria il primo corso di base formativo per “detenuti assistenti di persona”, un progetto sperimentale sviluppato nella Casa Circondariale di Terni e dedicato alle persone in regime di detenzione, che si è rilevato di grande interesse e di utilità vista l’alta adesione dei partecipanti.

Lo scopo di questo progetto è di educare carcerati al ruolo di caregiver, ossia, una figura professionale formata per offrire un servizio di assistenza, supporto e primo soccorso alla persona affetta da qualunque tipologia di disabilità.

Questo progetto, non solo ha portato cambiamenti notevoli nella qualità di vita dei disabili in cella che hanno potuto avere questo sussidio, ma è stato principalmente una grande esperienza di formazione e di “redenzione” per i carcerati che hanno potuto coprire questo ruolo.

Quindi sfatiamo il mito pessimista che dice “Più dai, meno ricevi”, in questo caso abbiamo un grande esempio di come, chiunque, anche le persone che hanno perso la speranza di potersi riscattare nella società perché si sono macchiati di qualche colpa, possono rinascere e cambiare grazie all’aiuto che loro mettono al servizio dei compagni di cella più in difficoltà.

– articolo a cura di Lavinia Fontana

 

Tutti abbiamo bisogno degli altri per vivere compiutamente la nostra vita, ma nel caso di molti disabili il bisogno è maggiore e diventa dipendenza. Quindi nella vita di queste persone ne entrano delle altre in funzione di aiuto e, fin quando le cose funzionano e c’è armonia, va tutto bene. Ma quando iniziano i problemi, uno dei due protagonisti, il disabile o l’operatore, incomincia ad andare in sofferenza. Cosa accade in quel frangente?

Cosa succede se il disabile, che può essere vittima o carnefice, non è solo l’assistito ma anche il datore di lavoro dell’altra persona? Come farà a dirimere la questione con sufficiente imparzialità e distacco?

Probabilmente non ci riuscirà e se vorrà farlo dovrà chiedere l’aiuto di qualcuno… aiuto che sarebbe sicuramente stato meglio avere a disposizione fin dall’inizio.

Per questo motivo, nel rapporto di assistenza e di lavoro tra disabile e operatore, quasi sempre è necessario che la figura dell’assistito e del datore vengano separate, per garantire una maggiore continuità nel tempo e soprattutto che i momenti di difficoltà vengano superati senza rotture traumatiche per nessuno.

Articolo a cura di Claudio Fontana

Dietro una parola c’è un mondo condensato e spesso la sintesi non aiuta la comprensione.

Si fa presto a dire “disabile” ma quante e quali differenze esistono, convivono, bisticciano in questo termine.

Ad esempio, per noi che ci occupiamo di turismo quante volte ci siamo trovati a chiedere di una camera adatta alle persone con disabilità e ci sono state proposte soluzioni di una diversità sconcertante: in alcuni paesi il disabile è per definizione al massimo paraplegico, atletico e single, altrimenti non si spiegherebbero il letto singolo appunto, la vasca da bagno e le dimensioni ridotte della stanza.

Oppure provate a mettere insieme un paraplegico con una buona autonomia di spostamento, che guida l’auto e che va in bagno da solo con una persona con una sclerosi multipla avanzata che, se ancora non lo costringe a letto, gli impedisce di compiere in autonomia praticamente tutti gli atti della vita quotidiana come mangiare, bere, andare in bagno, coricarsi, vestirsi: il primo entrando in contatto con il secondo scoprirà un mondo e un modo di vivere a lui sconosciuto.

Ma allora esistono diversi tipi di disabilità, ci sono disabili più abili e disabili meno abili o più disabili?!

Certamente sì.

Per noi che ce ne occupiamo tutti i giorni e che incontriamo nella nostra attività la maggior parte, per non dire tutte, le declinazioni della disabilità, il concetto è molto chiaro.

Provate però a chiederlo a molti progettisti, a certi politici e talvolta ad alcuni medici: per molti di loro esistono o delle categorie astratte, o soltanto coloro con i quali sono venuti in contatto.

Persino molti disabili non si rendono conto che accessibilità non è soltanto barriera architettonica, oppure un ostacolo di tipo sensoriale o cognitivo e soltanto pochi riescono ad avere veramente un approccio, un metodo che porti al superamento delle disabilità qualsivoglia siano.

Ed è proprio questo che vogliamo significare, superare la disabilità significa si cercare di eliminare quanti e più ostacoli ci sono, fornire quanti più aiuti possibili, ma soprattutto, siccome non si può prevedere tutto, avere la mente pronta ad adattarsi a situazioni e persone le più diverse, a personalizzare il nostro approccio, dal generale al particolare, sempre. O quasi.

– articolo a cura di Claudio Fontana