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“La terza edizione del Premio giornalistico nazionale Franco Bomprezzi, in memoria dell’influente giornalista scomparso otto anni fa, è tornata quest’anno per continuare la sua missione di sensibilizzazione sulla disabilità, la fragilità e l’inclusione in Italia. Franco Bomprezzi, autodefinitosi il “giornalista a rotelle”, ha lasciato un segno indelebile nel campo della comunicazione sulla disabilità. Quest’anno, al premio si affianca un omaggio a Maria Grazia Capulli, collega del Tg2 e creatrice della rubrica “Tutto il Bello che c’è”, altra voce importante nel panorama giornalistico italiano.

Il concorso è aperto a giornalisti di testate nazionali, sia cartacee che digitali, radiofoniche e televisive. Novità di quest’anno è l’introduzione di un grant europeo, in collaborazione con i Premi dei giornalisti e Cernuschi, mirato a sostenere i freelance nello sviluppo di progetti giornalistici incentrati sui 17 obiettivi di sostenibilità.

L’evento vedrà la partecipazione di numerose figure di spicco del settore giornalistico, tra cui Direttori, Co-Direttori, Vice Direttori e Conduttori. Uno studio di COORDOWN rivela che, nonostante una sovrastima della presenza di persone con disabilità in Italia, la maggioranza degli italiani supporta le agevolazioni per l’integrazione sociale e l’accesso ai servizi pubblici.

Interessante notare che molti italiani suppongono che la pensione d’invalidità sia più alta di quanto non sia in realtà, pur avendo una percezione accurata sulla questione dei falsi invalidi. La carenza di postazioni riservate per l’assegno di accompagnamento è un altro tema sollevato, con due terzi degli italiani che credono che i posti disponibili siano effettivamente utilizzati da chi ne ha bisogno.

In merito all’accessibilità a musei ed eventi, c’è una scarsa conoscenza delle politiche attuali: il 60% opterebbe per un prezzo ridotto sia per la persona disabile che per l’accompagnatore. Il tema del lavoro vede una forte approvazione (70%) del collocamento obbligatorio, con una larga parte della popolazione che ritiene adeguate le quote stabilite per le imprese.

Sulle sanzioni per le aziende inadempienti in materia di inclusione, oltre la metà degli intervistati non sa rispondere, evidenziando una lacuna informativa. Per quanto riguarda i parcheggi riservati ai disabili, un’indagine di AutoScout24 mostra un significativo progresso nella sensibilità pubblica: il 44% lo considera gravissimo occuparne uno indebitamente, e il 92% non lo farebbe mai.

In conclusione, pur essendoci ancora molto da fare per sensibilizzare ulteriormente l’opinione pubblica, i passi fatti finora indicano che siamo sulla strada giusta per un futuro più inclusivo e consapevole delle esigenze delle persone con disabilità.”

Cristina Zangone

Sono nata a Milano e mi sono formata nel campo dell’informatica. Nonostante il mio attuale impegno nel mondo del lavoro, con due occupazioni, non ho mai smesso di studiare. La mia passione è viaggiare e scoprire nuovi luoghi, accompagnata spesso dalla musica che amo ascoltare. Nonostante le sfide della mia condizione, essendo una persona disabile e utilizzando una carrozzina, affronto la vita con determinazione e curiosità.

Una cena tra amici disabili

Era già da un po’ di tempo che io e L., il mio compagno, disabile in sedia a rotelle, avevamo programmato una cenetta al Ristorante Indiano, assieme a due nostre amiche, una delle quali, A., disabile anche lei, è affetta da spasticità infantile. Questa, aggravata dagli esiti di una scoliosi purtroppo curata male, le dà problemi sia di postura che di deambulazione, per cui riesce sì a camminare in linea retta, ma procedendo con la schiena storta da una parte, e con le gambe ad “x”, e le punte dei piedi una verso l’altra… In sostanza, è sempre meglio che qualcuno le stia al fianco e la tenga sottobraccio quando cammina, per evitarle possibili cadute; quando invece si deve spostare autonomamente per raggiungere posti più lontani, utilizza un “macchinino-simil-scooter” – come lo chiamo io, ignorandone il nome – ed è proprio con questo che si è potuta recare al ristorante.

Io e L. eravamo tranquilli perché l’altra amica invitata avrebbe potuto aiutarla a mangiare nei momenti in cui avesse avuto bisogno, come, per esempio, quando è necessario tagliare qualche pietanza, dato che i piccoli movimenti involontari dovuti alla sua patologia le creano difficoltà in certe operazioni “di precisione” con i polsi e le mani. Potendo contare sull’aiuto di questa amica, quindi, io avrei potuto dedicarmi ad aiutare soltanto L., dato che anche lui, similmente, si trova in difficoltà in certe “situazioni” di un pasto, come, appunto, tagliare le pietanze, o raccogliere il fondo dei cibi più liquidi con il cucchiaio. Sfortunatamente, però, quasi all’ultimo momento, l’amica “aiutante” ha avuto un contrattempo e ci ha avvisati che non sarebbe potuta venire. Inoltre, presa dall’entusiasmo, e dimenticandosi di chiedercelo prima, aveva invitato anche un altro nostro amico disabile, F., un giovane non vedente, nello specifico. Si prospettava dunque una serata tutt’altro che facile: io “da sola” ad aiutare ben tre persone in difficoltà! Ce l’avrei mai fatta, riuscendo magari a mangiare qualcosa anch’io? Già mi vedevo ad imboccare ciascuno di loro, “a rotazione”, come i bimbi più piccoli di una scuola materna all’ora di pranzo.

Il ritrovo era previsto per le 20.15 circa, davanti al ristorante, ma, con il suo solito anticipo, A. alle 20 era già lì, e mi telefonò per annunciarcelo, mentre io e L. eravamo ancora in macchina, molto gentilmente accompagnati dalla sua disponibilissima mamma.

“Sì A., stiamo per arrivare!” le ribattei al telefono, e poi: “È già arrivato anche F.?” m’informai.

“Io non l’ho ancora visto” mi rispose lei.

Arrivati al posto consueto, nelle vicinanze, dove la madre di L. ci “scarica” con carrozzina e tutto, io e lui poi ci avviammo, e finalmente raggiungemmo il ristorante.

Ed eccoci dentro, dopo i saluti, ed esserci seduti al tavolo, alle prese con il menù, un momento piuttosto particolare delle nostre cene “etniche” (cioè, solitamente, al Ristorante Cinese o a quello Indiano, per l’appunto): ho infatti preso l’abitudine di portarmi carta e penna per segnare i piatti scelti da ognuno di noi, dopo aver elencato ad alta voce quelli presenti sul menù, ovviamente in italiano. Ho l’impressione che sia un buon metodo per facilitarci un po’ le cose, dato che A. è in difficoltà con la lettura e la scrittura, e L., il mio compagno, è eternamente indeciso e cambia idea facilmente (tendendo a prediligere i piatti più “complicati”, tra l’altro). Per non parlare poi di F., che, naturalmente, non può leggere.

Ok, prima fase raggiunta, dissi mentalmente a me stessa, dopo aver riferito tutti i “nostri menù”, con il nome indiano, al cameriere. Mi sentivo un po’ preoccupata per come si sarebbe svolto il seguito della serata, ma ero anche contenta di stare con L. e i nostri due amici; salutammo festosamente F., in particolare, perché era un bel po’ che non lo vedevamo, e gli chiesi come stava, e dei suoi ultimi traguardi sportivi, sapendo che lui ama e pratica diversi sport, tra i quali corsa e nuoto, in cui è davvero molto bravo. Nonostante la sua presenza non fosse stata prevista, per ragioni organizzative, era bello vedere e sentire dalle sue parole come fosse contento di essere lì con noi anche lui.

“Vitti, la pastiglia!” esclamò all’improvviso la previdentissima A., ricordandomi di estrarre dal portamonete di L. la compressa medicinale che lui deve assumere tre volte al giorno, in concomitanza dei pasti.

“Sì, giusto, grazie A.!” le risposi.

Ed ecco, dopo un po’, tramite il giovane e affabile cameriere, arrivare i tre gustosi antipasti richiesti, uno per ciascuno dei miei commensali: due “Mix-Veg. Pakora”, cioè un misto di verdure fritte in pastella di farina di ceci, e uno costituito da cubetti di formaggio fritti, sempre in pastella di ceci, di cui non ricordo il nome; comunque, tutti e tre da tagliare (

con forbici, l’unico strumento adatto che avevo), prima di poterli assaporare. Poi, gli svariati piatti principali, alcuni di essi molto “speziati”, e, infine, il dolce, un “Lassi”, una sorta di frullato di yogurt, zucchero, frutta e ghiaccio, davvero delizioso e rinfrescante.

La serata si svolse in allegria, risate e chiacchiere, tra cui, inevitabilmente, ci sono stati anche alcuni momenti un po’ “complicati”, come quando si è trattato di mangiare le “naan”, le tipiche focaccine indiane e di portare al palato i cibi più piccanti, con tanto di sudate e lacrime per tutti. Ma ciò ha aggiunto una nota di comicità alla serata, che, alla fine, è stata veramente piacevole e divertente, nonostante le difficoltà e le varie “acrobazie” cui ho dovuto ricorrere per aiutare, come potevo, i miei tre amici.

Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Sabato scorso, 16 settembre, alle ore 17, si è svolta in una frazione della mia città, Ferrara, una “camminata solidale” a favore di una fondazione-Onlus chiamata A.C.A.RE.F, nata proprio a Ferrara nel 2012 con lo scopo di sostenere progetti di ricerca per la cura delle malattie atassiche. Ma che cos’è l’Atassia?

Si tratta di una malattia degenerativa a dir poco tremenda, che porta a una progressiva perdita delle abilità più comuni, quali equilibrio e funzioni motorie, nonché a difficoltà sempre maggiori nel parlare, deglutire e respirare; il tutto nell’arco ristretto di 12-15 anni, dopo i quali il tempo per le persone che ne sono affette è esaurito… La meta di una cura definitiva non è stata ancora raggiunta, ma nel frattempo la ricerca prosegue fiduciosa, grazie anche ai sostegni ricevuti.

Io e L., il mio compagno disabile in sedia a rotelle, abbiamo un amico, M., affetto da questa malattia. La disabilità di L. presenta alcuni tratti “in comune” con l’atassia, per fortuna in maniera più “leggera”, se così si può dire, anche e soprattutto perché “bloccati” in un certo modo. Meno male che L. non ha problemi degenerativi (il che ovviamente costituisce una differenza sostanziale tra le due condizioni). Le manifestazioni esteriori sono la mancanza di equilibrio e un po’ di difficoltà nell’eloquio. Sarà per questo motivo, e per l’affetto che nutriamo nei confronti di questo amico, fatto sta che, quando possiamo, cerchiamo di contribuire, nel nostro piccolo, a questa buona causa, ad esempio partecipando a cene solidali o a manifestazioni come quella della camminata di sabato scorso. Da quando L. ha scoperto di avere la possibilità di spostarsi quasi autonomamente con un “handbike”, una “bicicletta manuale”, non ha più abbandonato questo mezzo. Quest’ultimo, nel nostro caso, non è né elettrico né “ibrido” – dotato cioè di entrambe le modalità di funzionamento, elettrica o manuale, a scelta – ma interamente manuale. In pratica, il suo utilizzo è faticosissimo, consentendo di “pedalare” unicamente con la forza delle braccia. Ma ciò sembra non dispiacere a L., dal momento che gli permette di rinforzarsi oltre che di spostarsi a suo piacimento (manovre permettendo). Tuttavia, è sempre accompagnato e “supervisionato” da qualcuno in bicicletta o a piedi (io, solitamente), dato che il mezzo non è particolarmente stabile.

Appena abbiamo saputo della camminata per l’A.C.A.RE.F., ci siamo iscritti e, arrivati al campo sportivo dal quale era prevista la partenza, abbiamo notato di essere gli unici con una handbike. Un ragazzino magrolino di circa 8 anni, con un berretto con visiera, ci osservava incuriosito. Quando cominciammo la marcia, notai che era l’unico bambino presente, in mezzo a disabili in carrozzina con i loro accompagnatori e ad altre persone di diverse età.

Il percorso scelto era splendido: un tratto della pista ciclabile lungo il Canale del Burana, nel Ferrarese, che per me è un’oasi naturalistica. Io e L. lo conosciamo bene e lo consideriamo la nostra oasi di pace e serenità, da percorrere con l’“handbike”.

La vegetazione, composta da campi di grano, mais, erba medica e a tratti anche da colza, girasoli, meli e peri, era affiancata da grandi pioppi. A un certo punto, abbiamo incontrato una vecchietta che raccoglieva bacche bluastre da un arbusto, simili ai mirtilli. Ci assicurò che fossero ottime per un risotto.

Mentre proseguivamo, il giovane ragazzino si informò sul funzionamento dell’handbike e sulla storia di L. Alla fine, spero che abbia portato con sé un bel ricordo di questa esperienza, un momento prezioso trascorso insieme in mezzo alla natura, in attesa che si trovi una cura per l’Atassia.

Vittoria Montemezzo

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

“Ehm… lo so”, se n’è parlato forse fin troppo di questo spot pubblicitario della catena di supermercati Esselunga, ma dei motivi ci devono essere… Ovviamente, si sono scatenate polemiche pro e contro, assumendo colorazioni politiche differenti, in genere provenienti le prime più da destra e le seconde più da sinistra; c’è anche chi si è indignato per la strumentalizzazione di situazioni così delicate, intime, per l’uso pubblicitario. D’altra parte, è dall’inizio della sua esistenza, e per sua intrinseca natura, che la pubblicità tende a suscitare emozioni e sentimenti nei possibili acquirenti, proprio per convincerli ad acquistare i prodotti pubblicizzati o a fare la spesa in un determinato supermercato, in questo caso. Indubbiamente, questa volta ha colpito nel segno, ritraendo una realtà sempre più diffusa in Italia, nonché negli altri paesi più sviluppati: quella delle famiglie divise, e cioè con i genitori che si sono separati.

Questa è certamente una realtà sconfortante, al di là di un giudizio morale, perché sicuramente è meglio che due genitori che scoprono di non andare d’accordo si separino, piuttosto che protraggano i loro litigi, spesso molto aspri, con i figli presenti. Comunque, per questi ultimi, specie se piccoli, il dolore di perdere quell’unità così confortevole e confortante in cui, in qualche modo, si sentivano e credevano all’inizio, all’interno del nucleo famigliare. E per quanto i genitori, perlomeno quelli bravi, cerchino in seguito di porvi rimedio, dimostrandosi presenti affettivamente, ognuno dei due a suo modo, e comunicando loro che questa separazione dipende unicamente da un problema fra la mamma e il papà, e non è assolutamente una loro responsabilità, questa ferita non sarà mai del tutto rimarginata. Parlo almeno da una mia esperienza personale ravvicinata. Purtroppo, succede di frequente che i bambini tentino strenuamente di riunire e riappacificare i genitori, con metodi struggenti; proprio come avviene, realisticamente, in questa pubblicità, che sembra quasi un piccolo film, con il dono della pesca al papà da parte della bimba, la quale invece sostiene convinta che provenga dalla mamma.

A questo punto i genitori dovrebbero cercare di essere saggi e comprensivi, come sembra fare il padre della piccola, promettendole che più tardi telefonerà alla mamma per ringraziarla; tuttavia, purtroppo, avviene spesso il contrario, cioè che i genitori rimangano fermi sulle loro posizioni egoistiche, e strumentalizzino i figli, anche se magari inconsapevolmente, cercando, ciascuno dei due, di attrarli dalla propria parte, contendendosene l’affetto, invece di pensare a quello che dovrebbe essere il loro bene.

La cosa triste è che, al giorno d’oggi, nella nostra società manca spesso una vera e propria quanto mai necessaria manutenzione dei sentimenti, come si è espresso lo psichiatra, sociologo ed educatore Paolo Crepet, commentando questo spot, che ritiene molto rappresentativo di tante realtà famigliari in Italia. A questo proposito, diverse coppie che si sposano -nonostante ormai il matrimonio sia diventato la forma di convivenza meno diffusa- sembrerebbero farlo più per apparenza e quasi un conclamato rito di passaggio che per vera convinzione. E infatti spesso molti matrimoni finiscono, così come accade, però, anche a tante unioni di fatto; e spesso anche mettere al mondo dei figli parrebbe corrispondere più alla dimostrazione a sé stessi e agli altri della propria capacità di procreare e avere una discendenza, che al desiderio di dedicare il proprio amore a qualcuno, aiutandolo a crescere. Non che in passato le cose fossero migliori, e se, a differenza di oggi, i matrimoni duravano, era più per convenzione che per convinzione: la separazione era infatti malvista, e si doveva restare uniti per forza, pur non andando d’accordo, per salvare le apparenze.

In sostanza, credo che oggi noi adulti abbiamo una vera e propria sfida davanti a noi: conoscere noi stessi, capendo cioè chi siamo veramente, e cosa veramente vorremmo poter raggiungere. E se ciò che desideriamo fosse ricreare quella piccola società in evoluzione che è una famiglia, dovremmo fondarla sull’amore, il rispetto e la responsabilità, nonché sulla volontà di dialogare e la tolleranza, prima di tutto con la persona -che dovremmo aver conosciuto e scelto altrettanto bene- con cui abbiamo deciso di condividere questa Vita, per poi poter accompagnare i nostri figli verso la loro, nel miglior modo possibile.

Vittoria Montemezzo

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Insegnare ai giovani ad amare – veramente

L’Amore: spesso lo si dà per scontato, si crede di conoscerlo già. Intuitivamente, si pensa di sapere di cosa si tratta ma, a pensarci bene, mi sembra che, in realtà, sia qualcosa che si debba ‘acquisire’ per poterlo poi ‘trasmettere’ o ‘insegnare’. Questo, ovviamente, a patto che chi intenda trasmetterlo lo abbia a sua volta realmente compreso e vissuto.

In questi tempi sembra esserci, invece, un grande “analfabetismo sentimentale”: l’Amore viene confuso e sostituito con il possesso, l’apparenza, il “successo sociale”. L’Amore, quello vero, non si può raggiungere in fretta e furia, al contrario, va “assorbito” lentamente, giorno per giorno, e praticarlo richiede fatica, volontà, dedizione… Se ci guardiamo intorno con sincera attenzione, possiamo notare quanto sia diventato essenziale imparare a amare.

Quando così spesso assistiamo ad orribili fatti come stupri e violenze, anche da parte di giovanissimi: cosa può portare a tutto questo, se non una fondamentale carenza di “apprendimento dei sentimenti”?

Magari si pensa che, per amare i propri figli, sia giusto dar loro “tutto”, riempirli di cose materiali, concedere loro tutto ciò che chiedono; ma poi, andando una sera in pizzeria, si possono vedere famiglie dove ciascun componente è totalmente assorbito dal mondo che compare sul suo cellulare per quasi tutta la durata della cena, salvo brevi pause per inghiottire il cibo… quando, invece, potrebbero essere occasioni da non perdere per stare insieme “veramente”, e “scaldarsi il cuore”, raccontandosi com’è andata la giornata, confrontandosi, scambiandosi opinioni, dicendosi magari anche ciò che non va…

E’ come se ognuno si chiudesse in sé stesso, e i ragazzi, in particolare, sono sempre più soli, benché possano avere una fittissima -ma fittizia, appunto- vita sui “social” (al posto di una vera vita sociale): spesso, infatti, la tecnologia non viene utilizzata in modo proficuo, ma solo come mezzo per illudersi di far parte di qualcosa… il che è una necessità legittima dell’essere umano, che però può essere raggiunta soltanto attraverso un contatto umano autentico…

Certo, instaurare relazioni vere con gli altri non è una cosa semplice, richiede un certo sforzo, un “dialogo”, un venirsi incontro l’un l’altro, e a volte anche di “scendere a compromessi” … Bisogna inoltre imparare anche a discutere “civilmente”, a controllare la propria rabbia, ad incanalarla in qualcosa di costruttivo e non offensivo, nonché ad esercitare la pazienza e la tolleranza…

Se questi valori non vengono assimilati fin dalla più tenera età, se fin da piccoli si è vissuti in una situazione di grave “trascuratezza emotiva”, può subentrare un vuoto incolmabile, che, specie se accompagnato da “esempi” negativi da parte di adulti violenti e/o abusanti, può anche sfociare in comportamenti del tutto inaccettabili e disumani. Per essere adulti veramente responsabili, dovremmo prima di tutto “guardarci dentro”, per capire se c’è qualcosa che è andato “storto”, e cercare di porvi rimedio, per poi trasmettere ai nostri figli, fin da bambini, una qualità fondamentale nella vita umana: l’empatia. Essa consiste, in sostanza, nella capacità di “mettersi nei panni degli altri”, e cioè il riuscire a riconoscere le emozioni e i sentimenti altrui nelle varie situazioni e condizioni, soltanto comprendendo

 che gli altri sono “come noi”, infatti, si può e si deve raggiungere il rispetto reciproco, altrettanto fondamentale nelle relazioni umane: nessuna persona può essere trattata come un oggetto.

Nello specifico, guardando agli ultimi, terribili episodi di cronaca, è a dir poco urgente che i ragazzi maschi riconoscano le ragazze come persone, esattamente come loro, degne di rispetto e di cura; e, similmente, queste ultime devono essere abituate dagli adulti ad avere rispetto anche per sé stesse, ed aiutate a riconoscere il loro valore al di là dell’apparenza fisica.

Empatia e Rispetto, dunque, dovrebbero diventare due aspetti fondamentali nell’educazione dei giovani, e possono essere trasmessi loro soltanto dall’azione congiunta della famiglia e della scuola: nessuna di queste due, infatti, potrebbe riuscire in questo difficile compito da sola, senza la collaborazione e il supporto convinti e costanti dell’altra. Solo una volta raggiunti questi due obiettivi, si può aprire la strada per un amore autentico e profondo.

Vittoria Montemezzo

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.