IL SIGNORE DI RIMINI
Recandosi a conoscere la città di Rimini, non si può -per modo di dire- tralasciare di visitarne il Duomo, uno dei suoi monumenti più significativi, dall’aspetto così particolare che a prima vista quasi non lo si crederebbe un edificio religioso; in effetti esso è conosciuto con il nome di “Tempio Malatestiano”: come mai? I Malatesta erano la casata nobiliare che regnò su Rimini dal 1295 al 1500 (e successivi brevi periodi), costituendo una tra le più importanti e influenti signorie dell’epoca rinascimentale in Italia; essi pretendevano di discendere dalla “Gens Cornelia”, antica famiglia romana, e nello specifico dal suo esponente più famoso, il console e generale Publio Cornelio Scipione l’Africano, che sconfisse il condottiero cartaginese Annibale, e fu proprio questo il motivo per cui adottarono la figura dell’elefante tra i loro stemmi araldici; Il nome “Malatesta” deriverebbe inoltre dall’appellativo attribuito ad un loro antenato del 10°secolo, tale Rodolfo, dimostratosi particolarmente tenace e coraggioso nel difendersi dagli attacchi esterni. Tuttavia, il vero artefice del periodo di splendore e prosperità vissuto dalla città fu Sigismondo Pandolfo Malatesta: egli fu infatti un colto umanista e mecenate, che si circondò dei più notevoli artisti e letterati dell’epoca -tra i quali l’architetto Leon Battista Alberti e il pittore Piero della Francesca-, per dare lustro e magnificenza a sé, la sua stirpe e la sua corte. Il Duomo è dunque considerato l’opera più importante del Rinascimento riminese, nonché una delle più caratteristiche del Quattrocento italiano, poiché fu la massima espressione di tutto ciò, e non a caso venne chiamato “tempio”: la sua speciale architettura e i suoi decori, infatti, riuniscono in sé innumerevoli significati simbolici e richiami alla filosofia e cultura classica, nonché a quella neoplatonica, alle quali Sigismondo Pandolfo aderiva fervidamente; al punto tale che il Papa Pio 2°Piccolomini scrisse di lui nel seguente modo, nei suoi “Commentarii”: “Costruì un nobile tempio a Rimini in onore di San Francesco; ma lo riempì di tante opere pagane che non sembrava un tempio di cristiani ma di infedeli adoratori dei demoni”
Per il signore di Rimini, il maggiore ispiratore di questa cultura fu Giorgio Gemisto Pletone, un filosofo neoplatonico bizantino che aveva contribuito alla riscoperta dell’antico filosofo greco Platone nell’ambito dell’Umanesimo, durante il primo Rinascimento Italiano; questi credeva inoltre in un ideale di unificazione tra le diverse religioni -cosa che il Cattolicesimo Occidentale “ufficiale” dell’epoca non approvava di certo… Tale eminente filosofo, che tanto influenzò il suo pensiero, venne a lui introdotto per la prima volta quando aveva appena sei anni, attraverso una lettera inviatagli da Ciriaco d’Ancona -quest’ultimo considerato il padre dell’Archeologia; e quando morì, quasi centenario, egli ne trovò le spoglie, mentre partecipava all’assedio della città di Mistrà, in Grecia, e le portò con sé in Italia, facendole poi riporre in un’arca sul fianco destro del Tempio Malatestiano, insieme a quelle di altri importanti umanisti.
Sigismondo Pandolfo fu dunque anche un abile condottiero, ma i suoi grandiosi progetti necessitavano di considerevoli finanziamenti, e questo motivo lo spinse a volte ad essere spregiudicato nel corso delle varie guerre alle quali prese parte, passando da un fronte all’altro: ciò gli inimicò presto diverse importanti personalità dell’epoca -compreso il sopra citato Papa Pio 2°-, che lo emarginarono e fecero di tutto per sconfiggerlo; in particolare, condusse una lunga e logorante guerra “senza quartiere” contro il duca Federico di Montefeltro, contendendosi con questi il dominio sulla città di Pesaro, nelle Marche, senza tuttavia riuscire mai nell’impresa. Durante la sua vita, però, molte altre imprese gli apportarono successo e fama, e la sua esperienza nelle arti belliche lo spinse ad ideare e far costruire anche l’altro monumento-simbolo del periodo dorato del suo governo su Rimini, Castel Sismondo: palazzo e fortezza insieme, dalle proporzioni grandiose e visivamente rappresentante il potere e il prestigio della sua dinastia.
Anche per quanto riguarda le sue “politiche matrimoniali”, egli si dimostrò saggio e accorto, dapprima sposando Ginevra d’Este, nel 1434, e in seguito, nel 1442, Polissena, figlia di Francesco Sforza: questi due matrimoni gli garantirono infatti vantaggiose alleanze; la terza e ultima volta, si sposò invece per amore, con Isotta degli Atti, nel 1456, e nel Tempio Malatestiano è riportata più volte, quasi ossessivamente, la sigla con le iniziali dei loro nomi intrecciate, la “I” e la “S”. Dai suoi matrimoni nacquero alcuni figli legittimi, ma, essendo lui di carattere molto passionale, ne ebbe anche diversi al difuori, quindi solo “naturali”, che però in seguito legittimò.
Così, addentrandosi in questo particolarissimo duomo-tempio-mausoleo classicheggiante, troveremo in una cappella il bellissimo affresco del celebre pittore rinascimentale Piero della Francesca, raffigurante, in una cornice di finti rilievi marmorei di cornucopie e con agli angoli gli stemmi della Signoria, “Sigismondo Pandolfo in preghiera davanti a San Sigismondo”, culmine della glorificazione del signore di Rimini. In esso si mescolano, infatti, significati cristiani e pagani, nonché il culto dinastico di questo speciale committente: con la figura del suo protettore, San Sigismondo, che cela in sé le fattezze di Sigismondo di Lussemburgo, imperatore del Sacro Romano Impero dal 1433, il quale rese cavaliere il Malatesta, legittimandone il potere e la successione; e i due levrieri accucciati dietro di questi, simbolo di fedeltà, il bianco, e di vigilanza, il nero…
Vittoria Montemezzo
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