La convivenza tra l’essere umano e gli animali selvatici

Quando ero piccola, andavo a trovare i miei genitori nel lettone la domenica mattina, e capitava che io e mio papà giocassimo “agli orsi”, più o meno in letargo, per mio padre, immagino… Io abbracciavo la sua schiena, di fianco, e cominciavo ad emettere i mugolii dell’orsetto, ai quali lui rispondeva con quelli più profondi di Papà Orso; immagino che, dopo un po’ di quella cantilena, anche mia madre, Mamma Orsa, si risvegliasse dal letargo… A proposito di lei, mi ricordo che una volta – avrò avuto due o tre anni – mi regalò un orsacchiotto morbido e peloso, fatto “a guanto”, nel quale, cioè, si poteva infilare la mano per farlo muovere, di nome Bernie, che io abbracciai con entusiasmo: ce l’ho ancora, e dopo avergli fatto fare un bel giro in lavatrice, adesso ci gioco con la mia nipotina di sette mesi… In effetti, l’orsacchiotto è un tipico compagno di giochi dei bambini piccoli, forse perché la fisionomia di questo animale appare così morbida e “pacioccona”… Ma in realtà, in natura, al di là del suo aspetto tenero e goffo, l’Orso è molto altro, e, nonostante la sua dieta sia in genere prevalentemente onnivora (perlomeno negli habitat naturali del nostro paese), appartiene di fatto alla categoria dei grandi carnivori, ed è un animale dotato di grande forza e anche di ferocia, all’occorrenza, nonché di un’insospettabile agilità; l’essere umano non fa certo parte delle sue prede, e solitamente lo rifugge volentieri, tuttavia, se “messo alle strette”, se avverte cioè di non avere una via di fuga vicino a sé, o se magari si tratta di una femmina con i cuccioli, che senta di doverli proteggere, può diventare aggressivo e veramente pericoloso… Come, purtroppo, è avvenuto di recente, in Trentino, nei confronti di un giovane “runner”, cioè corridore, Andrea Papi, che era solito praticare il suo sport sui sentieri del monte Peller: l’orsa in questione, chiamata con la sigla JJ4 (come si usa in etologia), è stata responsabile della sua aggressione e uccisione. Non si sa bene se questa abbia visto arrivare il runner all’improvviso, perché probabilmente di corsa, e quindi si sia spaventata, o se avesse avuto con sé i suoi tre “cuccioloni”, ormai di due anni, in fase di fine svezzamento; ad ogni modo, questo è stato il primo attacco mortale provocato da un orso in Italia, si legge su Internet e sui giornali.

Il fatto è che JJ4 è una dei figli di Jurka e Joze (dalle iniziali dei loro nomi la sigla JJ che la identifica), due dei capostipiti del progetto “Life Ursus”, cioè il progetto, finanziato dall’Unione Europea, di reintroduzione dell’Orso Bruno sulle Alpi Centrali, dove infatti questo animale si stava estinguendo, in seguito a un lungo periodo di persecuzione da parte dell’uomo: esso si è svolto tra il 1999 e il 2002, con la cattura in Slovenia di dieci esemplari e il loro rilascio in Trentino, nel Parco dell’Adamello Brenta. E pare che qui quei plantigradi si siano trovati così a loro agio da riprodursi fino a raggiungere il considerevole numero di circa un centinaio, cucciolate escluse; in questo modo però la situazione è “sfuggita di mano”, poiché inizialmente era stato previsto che la loro popolazione si sarebbe distribuita in un’area più vasta del solo Trentino, dove invece si è concentrata. Il risultato è quindi che ora ci sono troppi orsi in un’area fortemente “antropizzata”, e dunque gli incontri ravvicinati tra le due specie – gli orsi e gli umani – sono diventati molto più frequenti… Tra l’altro, non è stata data sufficiente importanza all’educazione “culturale” delle persone, abitanti e turisti, in materia di rapporto con gli animali selvatici: l’orso, si diceva, è un animale tendenzialmente schivo nei confronti dell’uomo, e in genere cerca di evitarlo; ma se, ad esempio, vengono lasciati in giro avanzi di cibo, o se i rifiuti non sono ben gestiti, oppure se gli viene offerto da mangiare “a buon mercato”, magari per scattargli una fotografia, col tempo può diventare più confidente e avvicinarsi ai paesi; se poi si va a spasso con i cani, per di più non tenuti al guinzaglio, nelle “sue” zone, e questi magari gli si lanciano contro abbaiando, oppure si percorrono troppo silenziosamente le stesse, tanto da sorprenderlo “impreparato” al nostro arrivo… beh, con tali comportamenti parrebbe proprio che noi umani siamo andati “a cercarcela”, la situazione potenzialmente pericolosa… Certo, se un orso impara ad aggredire o addirittura ad uccidere l’uomo, come nel caso del povero giovane corridore, diventa un esemplare “problematico”, e in questi casi la legge può stabilirne anche l’abbattimento, ma questa dovrebbe essere davvero l’ultima “soluzione”… Tante cose andrebbero riviste e “messe a posto”, compreso il monitoraggio dei plantigradi e dei loro spostamenti, in particolare delle femmine con i cuccioli.

Un esempio più positivo di convivenza con questo animale ci viene dal PNALM, cioè il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, sugli Appennini: qui gli abitanti sono di meno, e anche l’afflusso turistico è inferiore; inoltre, la specie di Orso Bruno che vi abita è “endemica”, vive cioè solo lì, ed è in realtà una sottospecie dell’Orso Bruno Euroasiatico (quello che invece popola il Trentino): si tratta dell’Orso Bruno Marsicano, che è più piccolo di dimensioni e anche meno aggressivo, e conta una popolazione nettamente inferiore, appena cinquanta individui. Inoltre, è proprio diversa la sua “gestione” da parte della gente: ad esempio, i pastori sono consapevoli che ogni anno verrà predata qualche pecora dall’orso, ma che di questo saranno risarciti, mentre per i turisti sono previste regole ben precise, come non uscire dai sentieri tracciati e divieto di portarsi al seguito cani, o entrare con cavalli, muli o asini, o anche mezzi meccanici come mountain-bikes, nonché norme di comportamento da tenere in caso d’incontro: fermarsi, non urlare, non scappare di corsa ma indietreggiare lentamente per lasciare all’ animale una via di fuga… Tuttavia anche in Abruzzo si è poi verificato di recente un “fattaccio” legato alla presenza del plantigrado: un’orsa chiamata Amarena, per via della sua passione per questi frutti, e madre particolarmente prolifica diventata un simbolo del Parco, è stata uccisa con una fucilata nel paese di S. Benedetto dei Marsi, in provincia dell’Aquila, da un uomo che se l’è vista entrare nella sua proprietà, vicino al pollaio: l’uomo ha raccontato di aver agito d’istinto, per paura. In realtà Amarena non si era mai dimostrata aggressiva, ma era diventata così confidente, si era cioè così abituata alla presenza umana, da arrischiarsi a compiere diverse “escursioni” nella zona, spesso seguita dai suoi cuccioli…

“Un esempio più positivo di convivenza con questo animale ci viene dal PNALM, ovvero il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, sugli Appennini: qui gli abitanti sono meno numerosi e anche l’afflusso turistico è inferiore. La specie di Orso Bruno che vi abita è ‘endemica’, ossia vive solo in quella zona, ed è in realtà una sottospecie dell’Orso Bruno Euroasiatico (a differenza di quello che popola il Trentino): si tratta dell’Orso Bruno Marsicano, che è più piccolo nelle dimensioni e anche meno aggressivo, e conta una popolazione nettamente inferiore, di circa cinquanta individui. La ‘gestione’ di questa specie da parte della popolazione locale è piuttosto diversa: ad esempio, i pastori sono consapevoli che ogni anno qualche pecora verrà predatta dall’orso, ma verranno risarciti per le perdite. Ai turisti, invece, sono imposte regole precise: è vietato uscire dai sentieri tracciati, portare cani, entrare con cavalli, muli o asini, o utilizzare mezzi meccanici come mountain-bike. Sono inoltre previste norme di comportamento in caso d’incontro con un orso: fermarsi, non urlare, non scappare di corsa ma indietreggiare lentamente per lasciare all’animale una via di fuga. Tuttavia, anche in Abruzzo si è verificato di recente un incidente grave legato alla presenza dell’orso: un’orsa chiamata Amarena, nota per la sua predilezione per questi frutti e madre particolarmente prolifica, simbolo del Parco, è stata uccisa con un colpo di fucile nel paese di S. Benedetto dei Marsi, in provincia dell’Aquila, da un uomo che l’ha sorpresa nella sua proprietà, vicino al pollaio. L’uomo ha dichiarato di aver agito d’istinto, per paura. Amarena, che non si era mai dimostrata aggressiva, era diventata così confidente, ovvero abituata alla presenza umana, da compiere diverse ‘escursioni’ nella zona, spesso seguita dai suoi cuccioli. Per lei, purtroppo, è finita male. D’altra parte, l’orsa JJ4, dopo essere stata ritenuta ‘esemplare problematico’ a seguito di una complicata battaglia legale, è stata catturata e trasferita al centro faunistico del Casteller di Trento. Attualmente la LAV, Lega Anti-Vivisezione, sta insistendo per il suo trasferimento in un ‘santuario’, ovvero un rifugio per orsi in Romania, dove potrebbe vivere in spazi e condizioni migliori. In conclusione, l’orso si comporta naturalmente come tale, e visto che il suo ripopolamento in Italia è stato fortemente voluto per salvaguardare un’importante biodiversità che stava scomparendo, dovremmo essere noi esseri umani, in un certo senso, ad ‘adattarci’ a lui in modo responsabile, rispettando anche la sua ‘privacy’. Lo stesso discorso vale per il lupo, sebbene in un contesto diverso. In fondo, gli animali sono nostri ‘compagni di viaggio’ nella vita su questo pianeta, un mondo così complesso che rischierebbe di diventare molto più triste se fosse privato dei suoi aspetti più ‘selvaggi’ e misteriosi, elementi affascinanti che arricchiscono anche le nostre storie e miti.”

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Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Ciò che ci spinge ad andare avanti

Chissà dove e in che modo, non ricordo bene, ma probabilmente durante il percorso scolastico, avevo letto che la parola “desiderio” era etimologicamente collegata alla parola latina “sidera”, cioè “stelle”, e questa cosa mi colpì moltissimo: “Allora i desideri ci vengono dalle stelle, in un certo senso!” ho pensato con entusiasmo, soffermandomi sul “de-”, leggendolo però in senso errato, e aggiungendovi “-sidera”; il vero significato letterale di quel “de”, infatti, è “mancanza, assenza di stelle”, che ancora io ignoravo… Ma poco male, il senso torna lo stesso: che cos’è infatti il desiderio, se non un’intensa aspirazione, una potente tensione verso qualcosa che ci manca? E se c’è qualcosa di lontano, affascinante, insondabile e meraviglioso, sono proprio le stelle…

Credo che nella vita tutti abbiamo bisogno di “motivazioni”, di scopi da raggiungere che ci spingano ad andare avanti, a non arrenderci, e ciò vale in modo particolare per le persone con disabilità, che di “mancanza” se ne intendono… A questo proposito, benché i sogni, e cioè i desideri più grandi, ci sospingano lontano, proiettandoci nel futuro, la vita vera, effettiva, si svolge nel presente, giorno per giorno; e quindi i desideri riguardano anche le piccole cose della quotidianità, che per una persona in difficoltà, come un disabile, specie se “sensoriale” o con ritardi cognitivi, non sono affatto scontate: poter decidere autonomamente, ad esempio, quale cibo mangiare, cosa indossare, incontrare gli amici, o dove andare in vacanza… Ebbene, a Reggio Emilia, nell’ambito dell’iniziativa “Reggio Emilia città senza barriere”, e per ora come sperimentazione unica a livello nazionale, è stato ideato qualcosa che permette alle persone con disabilità di realizzare proprio questo, e dunque di progettare una vita vera, secondo le loro scelte, che prosegua anche quando i loro genitori non ci saranno più: loro stesse o chi le rappresenta, come ad esempio un amministratore di sostegno, avranno a disposizione diversi incontri, affiancati da un accompagnatore, per redigere il loro “Pev”, “Progetto esistenziale di vita” (che potrà anche essere modificato, più avanti, in base agli eventuali cambiamenti di prospettiva esistenziale degli interessati); a questo punto tale progetto verrà esaminato da una commissione di tre persone, con competenze rispettivamente in campo legale, psico-sociale e medico-sanitario, e quindi depositato in un Registro pubblico all’ufficio dell’Anagrafe, per poi essere ripreso e tenuto in considerazione nel momento in cui, appunto, nella vita della persona in questione verranno a mancare coloro che si sono presi cura di lei fino ad allora, e che la conoscevano meglio. Perché anche chi è in condizione di disabilità possa scegliere personalmente come impostare la propria vita, raggiungendo quindi anche una certa indipendenza, non soltanto da un punto di vista economico e organizzativo, ma anche affettivo e sociale; tutti noi, infatti, anche se non ci pensiamo, abbiamo un’estrema necessità di sperare e di realizzare questi desideri, che pur essendo piccoli riempiono di senso la nostra vita, costituendone in sostanza l’aspetto più importante, ciò che la rende davvero degna di essere vissuta: un po’ come vedere e rendersi conto che, da lassù in alto nel cielo notturno, continua a splendere su di noi la luce delle stelle…

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Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Da cosa ha origine questa festa così popolare?

La parola “Halloween” deriva dal termine scozzese “All Hallows’ Eve”, dove “Eve” sta per “even” (poi contratta in “e’en” o “een”), che significa “sera” o “vigilia”, mentre “Hallows” è una parola arcaica per “Saints”, cioè “Santi”: è, in sostanza, la “Vigilia di tutti i Santi”, e corrisponde, praticamente, al nostro “Ognissanti” del 1° Novembre; soltanto che, essendone la vigilia, si svolge la sera prima, il 31 Ottobre. È una festività molto sentita nel mondo anglofono, che ormai ha preso piede anche in Italia e in diversi altri paesi, prevalentemente “occidentali”. Tuttavia, la sua origine è molto antica, risalente al Capodanno celtico, lo “Samhain”, che celebrava il passaggio dalla stagione estiva a quella autunno-invernale, e quindi la fine del raccolto e il suo immagazzinamento come riserva per i duri e freddi giorni a venire; in questo periodo, in cui si passava dalla luce delle lunghe giornate estive al veloce calare delle tenebre autunnali e invernali, si credeva che il confine tra il mondo terreno e l’“Aldilà” si assottigliasse, tanto da permettere alle anime dei defunti (che riposano sotto terra, proprio come i semi piantati in Autunno per l’anno a venire, durante l’Inverno) di oltrepassarlo per andare a trovare i vivi… La cosa era abbastanza inquietante! Per “ingraziarseli”, ed evitare eventuali vendette, la gente preparava del cibo, soprattutto dolci, da offrire loro in caso di visite, nonché delle luci per indicargli la strada di casa, che consistevano in candele racchiuse dentro rape intagliate a questo scopo… Ed ecco spiegati gli stuoli di bambini e ragazzi travestiti da fantasmi, streghe e mostri vari, che la notte di Halloween bussano alle porte delle case, muniti di appositi contenitori, pronunciando la famosa e minacciosa richiesta: “Dolcetto o Scherzetto?” (in inglese: “Trick or Treat?”); le figure impersonate rappresenterebbero gli spiriti “malintenzionati”, per acquietare i quali, ed evitare eventuali brutti scherzi da parte loro, la gente si premura di avere in casa una scorta sufficiente di dolciumi da regalargli… La celebre zucca illuminata all’interno sostituirebbe le primitive rape, poiché, oltre ad essere più grande e quindi più facile da intagliare, è un ortaggio che si trova più facilmente negli Stati Uniti, da dove questa tradizione è giunta fino a noi…Ma come mai proprio da qui, nonostante la sua origine sia celtica? Perché l’Irlanda è diventata la terra che ha ereditato maggiormente questa antica cultura, e quando, a partire dal 1800, molti Irlandesi emigrarono in America, spinti dalla povertà e in cerca di fortuna, portarono con sé queste usanze, che si diffusero poi a una gran parte del mondo occidentale. La zucca, con la sua smorfia ricavata nella scorza e la candela all’interno, si ricollegherebbe anche alla leggenda di “Jack-o’-lantern”: questi era un furbo fabbro irlandese, ubriacone, che riuscì ad ingannare più volte il Diavolo, incontrato una sera in un pub. Cominciò chiedendogli di trasformarsi in una moneta, che gli consentisse un’ultima bevuta prima di consegnargli la sua anima: con la sua astuzia, egli riuscì ad ottenere altri 10 anni di vita, al termine dei quali, però, il Signore delle Tenebre si ripresentò; ma, con un ulteriore stratagemma, Jack riuscì nuovamente ad evitare l’Inferno! Tuttavia, essendo stato in vita un grande peccatore, non gli fu permesso di entrare neanche in Paradiso, e così la sua anima fu costretta a vagare nel mondo dei vivi, scaldandosi e illuminandosi la via con un tizzone ardente lanciatogli dal Diavolo per scacciarlo dall’Inferno. La zucca-lanterna posta fuori dalle soglie delle case gli indicherebbe che lì non c’è posto per lui…

Simili usanze, concernenti il legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti, in cui s’intrecciano antichi elementi pagani e cristiani, si riscontrano anche in varie zone d’Italia, e sono spesso caratterizzate dalla preparazione dei cosiddetti “Dolci dell’Anima”: le “fave dolci” o, appunto, “fave dei morti”, in Lombardia, Emilia-Romagna, Marche, e Umbria; le “ossa di morto”, sorta di biscotti oblunghi con questa forma, e poi la “puppacena” e la “martorana” in Sicilia; “o’ morticiello” a Napoli, goloso torrone glassato con cioccolato; “i papassinos”, dolcetti di pastafrolla con uva passa, mandorle, noci e spezie, che i ragazzini mascherati richiedono di casa in casa in Sardegna, esclamando: “sòe su mortu mortu!”…

Insomma, nonostante oggi molte sue manifestazioni “scadano” nel commerciale, la permanenza in molti luoghi di tradizioni antiche legate a questa festa rivela, forse, il bisogno ancestrale e comune di noi esseri umani di ricordare i nostri cari scomparsi dalla vita terrena, nonché di esorcizzare la morte stessa, potendoli magari incontrare nuovamente su questa terra almeno una volta all’anno, e cioè in questa magica notte, in cui è permesso attraversare quel velo sottile.

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Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Una cena tra amici disabili

Era già da un po’ di tempo che io e L., il mio compagno, disabile in sedia a rotelle, avevamo programmato una cenetta al Ristorante Indiano, assieme a due nostre amiche, una delle quali, A., disabile anche lei, è affetta da spasticità infantile. Questa, aggravata dagli esiti di una scoliosi purtroppo curata male, le dà problemi sia di postura che di deambulazione, per cui riesce sì a camminare in linea retta, ma procedendo con la schiena storta da una parte, e con le gambe ad “x”, e le punte dei piedi una verso l’altra… In sostanza, è sempre meglio che qualcuno le stia al fianco e la tenga sottobraccio quando cammina, per evitarle possibili cadute; quando invece si deve spostare autonomamente per raggiungere posti più lontani, utilizza un “macchinino-simil-scooter” – come lo chiamo io, ignorandone il nome – ed è proprio con questo che si è potuta recare al ristorante.

Io e L. eravamo tranquilli perché l’altra amica invitata avrebbe potuto aiutarla a mangiare nei momenti in cui avesse avuto bisogno, come, per esempio, quando è necessario tagliare qualche pietanza, dato che i piccoli movimenti involontari dovuti alla sua patologia le creano difficoltà in certe operazioni “di precisione” con i polsi e le mani. Potendo contare sull’aiuto di questa amica, quindi, io avrei potuto dedicarmi ad aiutare soltanto L., dato che anche lui, similmente, si trova in difficoltà in certe “situazioni” di un pasto, come, appunto, tagliare le pietanze, o raccogliere il fondo dei cibi più liquidi con il cucchiaio. Sfortunatamente, però, quasi all’ultimo momento, l’amica “aiutante” ha avuto un contrattempo e ci ha avvisati che non sarebbe potuta venire. Inoltre, presa dall’entusiasmo, e dimenticandosi di chiedercelo prima, aveva invitato anche un altro nostro amico disabile, F., un giovane non vedente, nello specifico. Si prospettava dunque una serata tutt’altro che facile: io “da sola” ad aiutare ben tre persone in difficoltà! Ce l’avrei mai fatta, riuscendo magari a mangiare qualcosa anch’io? Già mi vedevo ad imboccare ciascuno di loro, “a rotazione”, come i bimbi più piccoli di una scuola materna all’ora di pranzo.

Il ritrovo era previsto per le 20.15 circa, davanti al ristorante, ma, con il suo solito anticipo, A. alle 20 era già lì, e mi telefonò per annunciarcelo, mentre io e L. eravamo ancora in macchina, molto gentilmente accompagnati dalla sua disponibilissima mamma.

“Sì A., stiamo per arrivare!” le ribattei al telefono, e poi: “È già arrivato anche F.?” m’informai.

“Io non l’ho ancora visto” mi rispose lei.

Arrivati al posto consueto, nelle vicinanze, dove la madre di L. ci “scarica” con carrozzina e tutto, io e lui poi ci avviammo, e finalmente raggiungemmo il ristorante.

Ed eccoci dentro, dopo i saluti, ed esserci seduti al tavolo, alle prese con il menù, un momento piuttosto particolare delle nostre cene “etniche” (cioè, solitamente, al Ristorante Cinese o a quello Indiano, per l’appunto): ho infatti preso l’abitudine di portarmi carta e penna per segnare i piatti scelti da ognuno di noi, dopo aver elencato ad alta voce quelli presenti sul menù, ovviamente in italiano. Ho l’impressione che sia un buon metodo per facilitarci un po’ le cose, dato che A. è in difficoltà con la lettura e la scrittura, e L., il mio compagno, è eternamente indeciso e cambia idea facilmente (tendendo a prediligere i piatti più “complicati”, tra l’altro). Per non parlare poi di F., che, naturalmente, non può leggere.

Ok, prima fase raggiunta, dissi mentalmente a me stessa, dopo aver riferito tutti i “nostri menù”, con il nome indiano, al cameriere. Mi sentivo un po’ preoccupata per come si sarebbe svolto il seguito della serata, ma ero anche contenta di stare con L. e i nostri due amici; salutammo festosamente F., in particolare, perché era un bel po’ che non lo vedevamo, e gli chiesi come stava, e dei suoi ultimi traguardi sportivi, sapendo che lui ama e pratica diversi sport, tra i quali corsa e nuoto, in cui è davvero molto bravo. Nonostante la sua presenza non fosse stata prevista, per ragioni organizzative, era bello vedere e sentire dalle sue parole come fosse contento di essere lì con noi anche lui.

“Vitti, la pastiglia!” esclamò all’improvviso la previdentissima A., ricordandomi di estrarre dal portamonete di L. la compressa medicinale che lui deve assumere tre volte al giorno, in concomitanza dei pasti.

“Sì, giusto, grazie A.!” le risposi.

Ed ecco, dopo un po’, tramite il giovane e affabile cameriere, arrivare i tre gustosi antipasti richiesti, uno per ciascuno dei miei commensali: due “Mix-Veg. Pakora”, cioè un misto di verdure fritte in pastella di farina di ceci, e uno costituito da cubetti di formaggio fritti, sempre in pastella di ceci, di cui non ricordo il nome; comunque, tutti e tre da tagliare (

con forbici, l’unico strumento adatto che avevo), prima di poterli assaporare. Poi, gli svariati piatti principali, alcuni di essi molto “speziati”, e, infine, il dolce, un “Lassi”, una sorta di frullato di yogurt, zucchero, frutta e ghiaccio, davvero delizioso e rinfrescante.

La serata si svolse in allegria, risate e chiacchiere, tra cui, inevitabilmente, ci sono stati anche alcuni momenti un po’ “complicati”, come quando si è trattato di mangiare le “naan”, le tipiche focaccine indiane e di portare al palato i cibi più piccanti, con tanto di sudate e lacrime per tutti. Ma ciò ha aggiunto una nota di comicità alla serata, che, alla fine, è stata veramente piacevole e divertente, nonostante le difficoltà e le varie “acrobazie” cui ho dovuto ricorrere per aiutare, come potevo, i miei tre amici.

Vittoria Montemezzo  

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.

Sabato scorso, 16 settembre, alle ore 17, si è svolta in una frazione della mia città, Ferrara, una “camminata solidale” a favore di una fondazione-Onlus chiamata A.C.A.RE.F, nata proprio a Ferrara nel 2012 con lo scopo di sostenere progetti di ricerca per la cura delle malattie atassiche. Ma che cos’è l’Atassia?

Si tratta di una malattia degenerativa a dir poco tremenda, che porta a una progressiva perdita delle abilità più comuni, quali equilibrio e funzioni motorie, nonché a difficoltà sempre maggiori nel parlare, deglutire e respirare; il tutto nell’arco ristretto di 12-15 anni, dopo i quali il tempo per le persone che ne sono affette è esaurito… La meta di una cura definitiva non è stata ancora raggiunta, ma nel frattempo la ricerca prosegue fiduciosa, grazie anche ai sostegni ricevuti.

Io e L., il mio compagno disabile in sedia a rotelle, abbiamo un amico, M., affetto da questa malattia. La disabilità di L. presenta alcuni tratti “in comune” con l’atassia, per fortuna in maniera più “leggera”, se così si può dire, anche e soprattutto perché “bloccati” in un certo modo. Meno male che L. non ha problemi degenerativi (il che ovviamente costituisce una differenza sostanziale tra le due condizioni). Le manifestazioni esteriori sono la mancanza di equilibrio e un po’ di difficoltà nell’eloquio. Sarà per questo motivo, e per l’affetto che nutriamo nei confronti di questo amico, fatto sta che, quando possiamo, cerchiamo di contribuire, nel nostro piccolo, a questa buona causa, ad esempio partecipando a cene solidali o a manifestazioni come quella della camminata di sabato scorso. Da quando L. ha scoperto di avere la possibilità di spostarsi quasi autonomamente con un “handbike”, una “bicicletta manuale”, non ha più abbandonato questo mezzo. Quest’ultimo, nel nostro caso, non è né elettrico né “ibrido” – dotato cioè di entrambe le modalità di funzionamento, elettrica o manuale, a scelta – ma interamente manuale. In pratica, il suo utilizzo è faticosissimo, consentendo di “pedalare” unicamente con la forza delle braccia. Ma ciò sembra non dispiacere a L., dal momento che gli permette di rinforzarsi oltre che di spostarsi a suo piacimento (manovre permettendo). Tuttavia, è sempre accompagnato e “supervisionato” da qualcuno in bicicletta o a piedi (io, solitamente), dato che il mezzo non è particolarmente stabile.

Appena abbiamo saputo della camminata per l’A.C.A.RE.F., ci siamo iscritti e, arrivati al campo sportivo dal quale era prevista la partenza, abbiamo notato di essere gli unici con una handbike. Un ragazzino magrolino di circa 8 anni, con un berretto con visiera, ci osservava incuriosito. Quando cominciammo la marcia, notai che era l’unico bambino presente, in mezzo a disabili in carrozzina con i loro accompagnatori e ad altre persone di diverse età.

Il percorso scelto era splendido: un tratto della pista ciclabile lungo il Canale del Burana, nel Ferrarese, che per me è un’oasi naturalistica. Io e L. lo conosciamo bene e lo consideriamo la nostra oasi di pace e serenità, da percorrere con l’“handbike”.

La vegetazione, composta da campi di grano, mais, erba medica e a tratti anche da colza, girasoli, meli e peri, era affiancata da grandi pioppi. A un certo punto, abbiamo incontrato una vecchietta che raccoglieva bacche bluastre da un arbusto, simili ai mirtilli. Ci assicurò che fossero ottime per un risotto.

Mentre proseguivamo, il giovane ragazzino si informò sul funzionamento dell’handbike e sulla storia di L. Alla fine, spero che abbia portato con sé un bel ricordo di questa esperienza, un momento prezioso trascorso insieme in mezzo alla natura, in attesa che si trovi una cura per l’Atassia.

Vittoria Montemezzo

Sono nata nel 1977, ho un diploma di liceo linguistico, mi piacciono i bambini, la natura, la storia e le culture antiche…e l’essere umano in generale. Dal 2015 sono insieme ad un compagno disabile in sedia a rotelle.