Il lavoratore che assiste una persona disabile , ha il diritto di essere trasferito in una sede più vicina al domicilio della persona presso la quale presta assistenza.

La possibilità di poter scegliere di lavorare nella sede più vicina al familiare da assistere, non vale solo per l’inizio del rapporto lavorativo, ma anche durante lo svolgimento dello stesso, anche in seguito a trasferimento.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione in una recente sentenza.

Il caso nasce dal ricorso di un lavoratore che aveva chiesto al proprio datore di lavoro di poter scegliere la sede lavorativa più vicina al comune presso il quale viveva la sorella che necessitava assistenza.

Il datore di lavoro aveva rifiutato e da qui è cominciato l’iter giuridico.

La prima sentenza era stata negativa, anche se il giudice aveva ordinato il trasferimento del lavoratore in una delle sedi disponibili vicino al comune dove abitava la sorella, ma la Corte d’Appello aveva dato ragione al lavoratore.

Decisione confermata dalla Cassazione.

La Corte ha sottolineato che il diritto di un “genitore o familiare lavoratore che assista con continuità un parente o un affine, entro il terzo grado, handicappato, ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio.

E’ applicabile non solo all’inizio del rapporto di lavoro mediante la scelta della sede ove viene svolta l’attività lavorativa, ma anche nel corso del rapporto, mediante domanda di trasferimento.

La ratio della norma è infatti quella di favorire l’assistenza al parente o affine handicappato, ed è irrilevante, a tal fine, se tale esigenza sorga nel corso del rapporto o sia presente all’epoca dell’inizio del rapporto stesso”.

Inoltre, “circoscrivere l’agevolazione in favore dei familiari della persona disabile al solo momento della scelta iniziale della sede di lavoro, come preteso dalla società ricorrente, equivarrebbe a tagliare fuori dall’ambito di tutela tutti i casi di sopravvenute esigenze di assistenza, in modo del tutto irrazionale e con compromissione dei beni fondamentali richiamati nelle pronunce della Corte Costituzionale”.

Articolo a cura del Dr. Lorenzo Edera – ASST Pavia

(Fonte Studio Cataldi – Quotidiano Giuridico)

Quando ero bambino, negli anni ’60, le Case di Riposo – ospizi a quei tempi – erano poche, di piccole dimensioni tranne casi eccezionali nelle grandi città, e soprattutto integrate nel contesto urbano.

Non era difficle vedere anziani che ad una certa ora uscivano dalla casa di riposo per andare al bar, passare il tempo con altre persone e ritornare per il pranzo o la cena.

Si trattava di una forma di vita assistita che alcuni sceglievano, ancorchè autossuficienti, per non vivere isolati ed avere una mano a gestire la propria vita quotidiana.

Quei tempi sono passati e dalla fine degli anni ’80, qui in Lombardia soprattutto, i politici hanno pensato di inventarsi il “business delle case di riposo”, dicendo che erano necessarie, che con l’invecchiamento della popolazione bisognava farsi trovare preparati e così hanno “regalato” finanziamenti, terreni, autorizzazioni al settore privato, ad imprenditori che spesso di tutto si occupavano tranne che di servizi socio sanitari.

E così le case di riposo si sono moltiplicate, costruite spesso in luoghi periferici e “irraggiugibili” e quando l’offerta aumenta, se non si vuole “fallire” bisogna incentivare la domanda. Così è stato: molte persone che avrebbero potutto continuare a vivere a casa loro o “adottate” da altre famiglie sono state “dirottate” nelle case di riposo – dove “dirottamento” è inteso in senso piratesco e terroristico – . Se ancora erano autosufficienti o quasi, sono state costrette a vivere una vita super assistita e quindi a diventare non-autosufficienti.

In statistica si parla di “speranza di vita” per indicare quanti anni in media una persona può avere davanti a se nelle diverse fasi della sua vita, ma per questi anziani “costretti” alla Casa di Riposo, l’orizzonte si è drasticamente accorciato diventando una “attesa di morte”.

Anche a questo ci dobbiamo ribellare, non accettandolo come uno “status quo”, in prima persona con il nostro impegno di cittadini, di familiari di persone anziane e per chi, operatore del settore, cercando di incentivare servizi diversi dalla soluzione semplice, sbrigativa e lucrosa della casa di riposo di massa così come è oggi concepita.

Articolo a cura di Claudio Fontana

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Vi riportiamo alcuni estratti da un interessante articolo originariamente pubblicato sul sito Open:

Secondo uno studio dell’Istituto Mario Negri di Milano, i calciatori professionisti si ammalano due volte di più della popolazione generale. Per chi gioca in serie A il rischio è ancora più alto. Il professore Ettore Beghi ha spiegato a Open quali sono le cause.

In media, i calciatori professionisti si ammalano di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla) due volte di più rispetto alla popolazione generale e 6 volte di più per quanto riguarda i calciatori di serie A. Lo dimostra uno studio epidemiologico, condotto dai ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Milano e presentato al meeting annuale dell’American Academy of Neurology, in svolgimento negli Usa, a Philadelphia.

Il dottor Ettore Beghi, responsabile del Laboratorio di Malattie Neurologiche dell’Istituto Mario Negri, ha spiegato a Open come è stato condotto lo studio e quali potrebbero essere le cause dei risultati a cui sono giunti i ricercatori.

«Abbiamo creato quella che chiamiamo tecnicamente “una corte” di ex calciatori, andando a ricostruire le loro carriere, consultando gli album della Panini, vedendo quanti di questi soggetti avessero poi sviluppato la Sla e confrontandoli con persone che non avevano praticato il calcio, che erano il resto della popolazione. Facendo questo abbiamo visto che il rischio per gli ex calciatori è doppio.

L’informazione più importante che abbiamo ricavato è che se ad ammalarsi di Sla è un ex calciatore, questa persona si ammala molto prima di quella che è l’età abituale di insorgenza della malattia. Con un divario che è di circa di vent’anni. A questo punto noi abbiamo dedotto che essendo la Sla una malattia che risulta da un inseme di fattori, alcuni genetici (quindi una predisposizione) e altri esterni, ci siamo fatti l’idea che in soggetti predisposti (che erano quelli che si sono ammalati di Sla fra gli ex calciatori) il calcio abbia in qualche modo non solo creato un maggior rischio, ma un’anticipazione dell’esordio dei sintomi». 

L’entità del rischio (doppio, triplo, quadruplo) è comunque da rapportare alla rarità della malattia. Cosa vuol dire? Che se una persona, per caso, si ammala di Sla, il suo rischio e di due/tre casi per centomila persone ogni anno: questo è il valore che emerge dagli studi di incidenza. Con un rischio doppio, triplo o quadruplo, si va a raddoppiare o triplicare questo numero. Quindi si sale a quattro su centomila o sei su centomila. C’è un rischio, ma si rimane sempre nell’ambito di una probabilità abbastanza bassa di insorgenza della malattia. Perché nella Serie A sia così alto rispetto alle altre serie non glielo so dire. 

Il calcio può comportare un danno ai motoneuroni sostanzialmente per tre motivi:

1) la ripetività dei traumi, in particolare dei traumi cranici. C’è un grosso dibattito negli Stati Uniti per quanto riguarda il Football americano e l’importanza degli eventi traumatici nel determinare quella che viene chiamata encefalopatia traumatica. Noi stessi, in un passato recente, abbiamo dimostrato, confrontando ammalati di Sla e una popolazione di controllo, che chi si ammala di Sla riporta nella nostra anamnesi una storia di traumatismi di una certa importanza, e di traumatismi multipli, più frequente rispetto a un soggetto che non si è ammalato di Sla. Quindi i traumi, se ripetuti e se cranici, potrebbero rappresentare un fattore di rischio.

2) c’è poi molta discussione nella nostra letteratura scientifica su quanto importi un esercizio fisico molto, molto spinto. Qui i dati sono un po’ più controversi. Ci sono studi che hanno fatto vedere che l’esercizio fisico è un fattore di rischio, altri invece, come uno studio fatto da noi, che sembra essere protettivo. Noi stessi abbiamo dimostrato che l’esercizio fisico nella popolazione fa bene, ma in un soggetto che poi si ammala di Sla rappresenta un fattore di anticipazione dei sintomi. Ed è quello che abbiamo visto nel nostro studio. 

3) un terzo fattore – su cui però esiste ancora molta discussione e non ci sono molte prove – è l’utilizzo di farmaci antinfiammatori. Si è visto che alcuni di questi farmaci hanno delle molecole che sono simili a diserbanti e sono utilizzati sui campi di calcio, che sono a loro volta dannosi per i moto neuroni. Anche questo potrebbe essere un fattore da considerare, anche se, come le dicevo, l’evidenza scientifica che sta dietro non è particolarmente forte. 

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Non ci sono elementi per poter dire che il doping sia una delle cause. Se però intendiamo anche l’assunzione di sostanze che servono a irrobustire la muscolatura, come gli aminoacidi ramificati, qualcosa si è visto. Noi, tanti anni fa, abbiamo fatto uno studio in cui abbiamo voluto vedere che effetti avesse sulla malattia l’uso di queste sostanze, sulla base di uno studio precedente che aveva visto che questi aminoacidi ramificati sembravano essere utili nel rallentare la progressione della malattia.

In realtà abbiamo dovuto sospendere lo studio perché nel braccio dei pazienti che assumevano gli aminoacidi si era visto che la mortalità era maggiore. Non sappiamo se la causa fossero gli aminoacidi o qualche atro fattore di cui non avevamo tenuto conto però questo è un motivo di riflessione per dire che gli aminoacidi potrebbero magari in qualche modo, in soggetti predisposti, anticipare l’esordio della malattia.

Anche l’Alzheimer avrebbe nella patologia traumatica un fattore di rischio. Per cui, Parkinson e Alzheimer sono malattie che hanno degli elementi in comune – il processo degenerativo del sistema nervoso – andando a studiare un’esposizione a traumi, un’esposizione all’esercizio fisico strenua e vedere che questo si accompagna, non solo a una più precoce insorgenza di Sla, ma anche a un aumentato del rischio per queste altre patologie, per noi è un grosso risultato perché ci aiuta a capire meglio il meccanismo di queste malattie.» 

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Il Comitato Uniti Per L’Autismo ha lanciato una petizione sul portale Change.org per chiedere alla regione Lombardia una migliore legislazione in merito al sostegno delle famiglie nelle quali c’è un minore affetto da autismo.

Inoltre, pare che ultimamente la Regione Lombardia abbia attuato dei cambiamenti sulle norme di Non Autosufficienza per i disabili, andando a modificare la misura B1. Ciò significa dei pesanti tagli al budget destinato al sostegno delle famiglie di minori disabili, con una diminuzione da 1000€ mese a 600€ nel caso in cui frequentino la scuola. 

Autism Awareness Ribbon

Vi riportiamo il testo dell’aggiornamento sulla petizione scritto dal Comitato “Uniti Per L’Autismo”:

Abbiamo avuto una sgradita sorpresa da Regione Lombardia sui cambiamenti in merito alle misure di Non Autosufficienza per i disabili gravissimi per il 2019 per quanto riguarda la misura B1.

Quello che non abbiamo apprezzato, e lo abbiamo fatto notare in sede di presentazione, è la diminuzione della misura B1 per i minori disabili gravissimi da 1000€ mese a 600€ nel caso in cui frequentino la scuola. 
Siccome in larga parte , vivaddio, i bambini autistici anche gravi e gravissimi (Livello 3 – DSM V) vanno tutti a scuola riteniamo che questo provvedimento sia iniquo.
Pensiamo che i nostri figli abbiano un diritto allo studio e riteniamo la frequentazione di scuole pubbliche ed inclusive un diritto assoluto che non può essere considerato una discriminante per tagliare i contributi dovuti.


Ci auguriamo che vi sia una reale presa in carico in futuro ancora lontana a venire, visto che la legge 15/2016 è ancora inattuata e auspichiamo che almeno le misure di sostegno indirette non siano ridotte al lumicino.


Riproponiamo con maggiore forza la petizione affinché a tutte le persone con disabilità siano riconosciuti i diritti previsti dalle Leggi Internazionali, nazionali e regionali.

Articolo a cura di Luisa Cresti

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Roche ha annunciato l’avvio in Italia di un programma di studio di fase II sull’atrofia muscolare spinale (SMA) che valuterà la sicurezza, la tollerabilità e l’efficacia di RG7916, una nuova molecola amministrata per via orale, in pazienti giovani e adulti affetti da SMA di tipo I, II e III.

L’Italia è il primo paese ad avviare questo importante programma con lo studio denominato SUNFISH, già iniziato in pazienti con SMA di tipo II e III, e a cui farà seguito a breve anche lo studio FIREFISH in pazienti affetti da SMA di tipo I. Il programma di sperimentazione è volto ad identificare nuove soluzioni terapeutiche per una patologia, l’atrofia muscolare spinale, per la quale ancora non esistono soluzioni approvate.

La nostra segretaria Sara ci racconta della sua esperienza personale all’interno di questo programma di sperimentazione:

Durante il primo anno di sperimentazione, a metà pazienti davano il placebo mentre all’altra metà veniva somministrato il vero farmaco. Nel corso del secondo anno, chi nel primo aveva ricevuto il placebo, avrebbe ricevuto il farmaco. Io ho avuto la fortuna di aver ricevuto il farmaco dal primo anno e devo dire che nel suo piccolo ha funzionato: sono un po più forte e alla sera arrivo ad essere meno stanca.

Inizialmente si andava in ospedale una volta al mese per i controlli. Trascorrevo in ospedale una giornata intera, nel corso della quale facevo un elettrocardiogramma ed esami del sangue ogni tot ore, fisioterapia, ogni tanto la spirometria e infine visita oculistica (dato che a quanto pare come effetto collaterale c’era la possibilità di peggiorare leggermente con la vista, ma niente di grave). La dose somministrata era minima (si prendeva una siringa da 3,7 ml), poi pian piano le visite sono diminuite, arrivando ad essere una ogni 2 mesi, fino allo scadere dei 2 anni. Successivamente le visite sono arrivate ad essere una ogni 4-5 mesi ed adesso la dose somministrata è di 6,5 ml.


L’atrofia muscolare spinale è una patologia genetica rara e debilitante, più frequentemente diagnosticata nei bambini. Colpisce fino a 10.000 bimbi in tutto il mondo ed è classificata in 4 diverse forme: il tipo I e II si presentano durante l’infanzia; il tipo III, anche nell’adulto; mentre il tipo IV solo in età adulta. La malattia porta alla progressiva degenerazione del motoneurone, ovvero alla mancanza di controllo del movimento muscolare e, a seconda della forma, può causare la perdita della forza fisica, la capacità di camminare, di mangiare o respirare. E’ la più comune causa genetica di mortalità infantile ed è considerata una delle malattie rare più comuni.

La SMA di tipo I rappresenta la forma più grave e compare solitamente nei primi sei mesi d’età, causando una profonda debolezza muscolare e compromettendo inevitabilmente la capacità motoria. I bambini affetti da SMA di tipo I non riescono a stare seduti, a svolgere autonomamente attività semplici ed automatiche come mantenere eretto il capo e deglutire. Il progressivo indebolimento dei muscoli del torace aumenta il rischio di infezioni respiratorie e causa una scarsa crescita polmonare. Comporta un alto tasso di mortalità, non permettendo al 90% dei bambini nati con questa patologia di sopravvivere al secondo anno di età.

La SMA di tipo II, nota anche come SMA intermedia o cronica infantile, presenta sintomi cheincludono la debolezza muscolare e ipostenia, e che compaiono solitamente tra i 6 ed i 18 mesi di età. I pazienti affetti da questa tipologia di atrofia sono in genere in grado di sedersi autonomamente, ma non di camminare. Vanno in contro ad un grave e progressivo peggioramento della disabilità motoria che spesso porta a necessitare cure 24 ore al giorno e per tutta la vita. Gli individui con SMA di tipo II spesso sviluppano una grave scoliosi e la debolezza dei muscoli del torace porta ad un elevato rischio di infezioni respiratorie severe. La gravità e la progressione della patologia si differenziano da persona a persona, tanto che l’aspettativa di vita varia dalla prima infanzia fino all’età adulta.

Nella SMA di tipo III, i sintomi di debolezza muscolare compaiono tra i primi 18 mesi e l’età adulta. Comportano difficoltà nel camminare, debolezza muscolare e un aumento del rischio di infezioni respiratorie. Un numero significativo di persone con SMA di tipo III perde la capacità di deambulare, può sviluppare una grave scoliosi e altri problemi ortopedici. Molti di questi sono costretti sulla sedia a rotelle già all’età di 40 anni.

Il tipo IV, invece, considerato la forma adulta di SMA, è meno comune e colpisce gli adulti. E’ caratterizzato da una progressione più lenta dei sintomi, che influiscono principalmente sulla capacità di camminare. I sintomi compaiono solitamente dopo i 35 anni ed i pazienti possono avere un’aspettativa di vita normale.

Per approfondire l’argomento, consultate la nostra fonte.

Articolo a cura di Sara Gallione e Luisa Cresti.