Il gioco rappresenta un elemento vitale dello sviluppo umano e sociale, essenziale a tutte le età. È particolarmente cruciale per il benessere e la crescita di bambini e adulti, inclusi coloro che presentano disabilità, indipendentemente dal loro stadio di vita. Più che un semplice svago, il gioco offre opportunità educative e terapeutiche adattabili alle esigenze di ciascuno.

Educatori e terapisti, insieme a chi si occupa di assistenza, devono essere consapevoli dei livelli di apprendimento e delle necessità individuali delle persone con disabilità, per poter selezionare le attività più adeguate. I giochi disponibili variano ampiamente e includono opzioni tattili, visive, uditive, di memoria e persino videogiochi, scelti in base al tipo di disabilità, all’età e alle capacità cognitive dell’individuo.

La collaborazione tra l’équipe medico-educativa e i familiari è fondamentale per un approccio olistico e personalizzato. Numerosi sono gli strumenti e gli spazi dedicati a rendere il gioco un’esperienza inclusiva, come giochi da tavolo modificati, videogiochi accessibili e parchi ricreativi progettati per essere fruibili da tutti.

In sintesi, il gioco non solo è un diritto fondamentale, ma rappresenta anche un potente mezzo di inclusione e sviluppo personale, essenziale per garantire che ogni individuo, a prescindere dalle proprie capacità o età, possa godere pienamente delle opportunità che il gioco offre.

Cristina Zangone

Il dialetto della Valle d’Aosta è in realtà una lingua ancora viva, vivace e diffusa: il “Patois”; esso è parlato comunemente non solo dalle popolazioni valdostane intorno al Monte Bianco, ma anche da quelle della Svizzera romanda, cioè francofona, dai Savoiardi e dagli abitanti di alcune vallate del Piemonte occidentale. Si tratta di una lingua Francoprovenzale, cioè una lingua neo-latina, che, insieme al Francese, detto anche “langue d’oil”, e al Provenzale Occitano, o “langue d’oc”, appartiene al gruppo “Galloromanzo”; in essa si ritrovano alcuni elementi comuni al Francese e altri al Provenzale, oltre ad alcune caratteristiche sue proprie. Viene considerato una lingua più arcaica rispetto al Francese, dal quale si sarebbe separato, sviluppandosi in particolare nella zona attorno alla città di Lione, alla fine dell’epoca merovingia o all’inizio della carolingia; dopodiché si sarebbe arrestato, mentre il Francese avrebbe proseguito la sua evoluzione.

In Val d’Aosta esso si è poi notevolmente “frammentato” nei vari comuni, al punto che ad oggi esistono “tanti patois quanti sono i campanili”! Inoltre ha mantenuto alcuni elementi prelatini di origine celtica, come ad esempio la parola “modze”= “giovenca”, “barma”= “grotta, riparo naturale sotto una roccia”, “breuil”= “piano lacustre, paludoso”; oppure radicali come “dor”= “acqua corrente”, da cui il nome del fiume principale che attraversa la Val d’Aosta, la Dora, o “tsa”= “pascolo elevato, soleggiato”; c’è anche la parola “tsalende” o “tchalénde”, direttamente dal Latino “Calende”, per indicare il Natale -sebbene per i Latini, nello specifico, indicasse in realtà i primi giorni di un mese o dell’anno.

Ci fu poi una persona dallo spirito curioso, “pioniere” della dialettologia, che, a fine ottocento, si occupò di sistematizzare il Patois Valdostano in una grammatica e in un dizionario: il curato Jean Baptiste Cerlogne, ancora oggi un punto di riferimento per gli studiosi di Francoprovenzale. Di umili origini, egli seppe trarre poesie dai toni lirici dalla sua esperienza di contadino e spazzacamino, descrivendo in questa sua lingua madre scene di vita quotidiana e pastorale, come nella “Bataille di vatse a Vertosan”: qui viene narrata per la prima volta la famosa “Bataille de Reines”, cioè la “Battaglia di Regine”, una manifestazione folcloristica, molto sentita in alcune regioni alpine in Svizzera, Francia e Italia, che si svolge annualmente tra Estate e Autunno in Val d’Aosta e Piemonte: essa consiste in un combattimento incruento tra mucche gravide. Le razze di mucche più adatte alla competizione sono la Valdostana Pezzata Rossa -inoltre grande produttrice di latte-, introdotta in Val d’Aosta addirittura alla fine del 5°secolo, la Valdostana Pezzata Nera e quella Castana; quest’ultima, “cugina” della Hérens del Vallese (uno dei cantoni svizzeri), si contraddistingue per il suo temperamento bellicoso. In realtà le lotte di questi animali avvengono spontaneamente anche in natura, in occasione di una mescolanza interna ad una mandria o tra più mandrie; in genere, alla fine, la mucca sconfitta si allontana, cedendo il passo alla rivale più forte. In Valle d’Aosta il torneo, ad eliminazione diretta, si svolge ogni Domenica tra Marzo e Giugno, prima della salita agli alpeggi del periodo estivo; si giunge così al “Combat Final” = il “Combattimento Finale”, l’ultima Domenica di Ottobre, ad Aosta, alla Croix Noire, un’arena apposita alle porte della città, al termine del quale viene eletta  la “Reine de Corne” = la “Regina di Corna”: essa riceverà quindi in premio il “Bosquet”, una composizione di fiori in cartapesta rossa, nonché un bel campanaccio in cuoio. Questa tradizione attrae ogni anno in città migliaia di spettatori: è insomma una vera e propria festa, durante la quale sembrano riecheggiare nelle orecchie i versi della celebre poesia di Cerlogne:

“Un bel giorno di Luglio[…]/da Aosta parto alle prime luci del mattino,/Portando con me: salame, pane bianco, fontina,/E un po’ di quel succo che si fa nel tino,/[…]/Lì, chi da una parte chiama e chi dall’altra grida/Hoé! hoé, partiamo, amici?/Si prepara una grande battaglia di mucche;/[…]/Presto già sento che le vette aguzze/Rispondono tutt’intorno ai fischi dei mandriani./Nei prati fioriti che un’acqua pura irrora/Sotto l’erba nascosto canta il grillo./Dal cespuglio all’abete si posa il pettirosso,/Regalando ai passanti le sue più belle canzoni./Di lontano si vede che al Breuil fanno rientrare le mucche sazie,/Che già correvano, sentendo il caldo del giorno;/Attraverso il pianoro dove il ruscello gironzola/Dividendolo con le sue svolte./Giungendo al Breuil ho visto, come in un giorno di festa,/Tutti ben vestiti dai piedi alla testa./[…] Vittoria Montemezzo    

Forse non tutti sanno che la famosa principessa “Sissi” -soprannome vezzeggiativo datole in famiglia (che però in realtà era “Sisi”) – cioè la duchessa Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, moglie dell’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, soggiornò a Merano e dintorni e li visitò in diverse occasioni; e si può dire che Merano acquisì la sua fama di città termale e di cura proprio grazie al fatto di essere stata così amata e frequentata da questo celebre personaggio. In genere, pensando a lei, viene in mente la nota trilogia di film degli anni ’50, di grande successo, incentrata sulla sua figura; che in realtà è però una versione piuttosto romanzata della sua vita…che invece fu piuttosto triste, a quanto pare. Ma cominciamo dall’inizio…

INFANZIA E ADOLESCENZA: Elisabetta nacque il 24 Dicembre 1837 a Monaco di Baviera, come quarta dei dieci figli del duca Massimiliano Giuseppe “in Baviera”, un ramo collaterale della famiglia Wittelsbach, e di Ludovica di Baviera, che invece apparteneva al ramo principale della stessa famiglia reale.

Nonostante il matrimonio dei suoi genitori non fosse felice, a causa dei molti tradimenti del duca Massimiliano, dai quali nacquero anche diversi figli “illegittimi”, la sua infanzia trascorse piuttosto serenamente, tra Monaco, nel palazzo di famiglia, durante il periodo invernale, e i mesi estivi nel castello di Passenhofen, residenza alla quale la giovane duchessa rimase legata per tutta la vita, dal momento che si trovava immersa nella natura, che lei amava molto. Inoltre crebbe relativamente libera dagli obblighi di comportamento sociale solitamente imposti alla nobiltà mitteleuropea del 19° secolo, in modo più semplice e spontaneo, e fin da piccola venne abituata ad occuparsi delle persone più povere e bisognose.

Quando ebbe quattordici anni, s’innamorò perdutamente del conte Richard S., un giovane scudiero del duca Massimiliano, che però, non essendo ritenuto un “buon partito”, venne presto allontanato dal palazzo e inviato altrove; non molto tempo dopo ritornò, ma poi si ammalò e presto morì: il cuore della ragazzina a questo punto si spezzò, ed ella si rinchiuse in sé stessa e cominciò a scrivere poesie sul suo primo amore sfortunato.

IL MATRIMONIO CON FRANCESCO GIUSEPPE, IMPERATORE D’AUSTRIA: Per tentare di consolarla, nell’Agosto del 1853, all’età di sedici anni, sua madre la duchessa Ludovica la portò con se e la sorella maggiore Elena a Ischl, la residenza estiva del giovane Imperatore Francesco Giuseppe, dove, durante i festeggiamenti per il compleanno di quest’ultimo, aveva intenzione di annunciare pubblicamente il fidanzamento tra lui e sua figlia Elena, come aveva concordato con sua sorella Sofia, madre di Francesco Giuseppe; ma quel giorno il giovane fu letteralmente conquistato, invece, da Elisabetta, che, così intimidita com’era in mezzo a tutta quella gente di alto rango, ne fu consapevole soltanto in un secondo momento, quando sua madre gliene parlò apertamente. Così, il giorno seguente, le chiese se fosse accondiscendente alle nozze con lui, e lei accondiscese.

Vennero allora avviate tutte le trattative con la Santa Sede, per ottenere il consenso del Papa, in quanto i due futuri sposi erano tra loro primi cugini: ma poiché a quell’epoca questo avveniva di frequente all’interno delle casate nobiliari, la loro stretta parentela non venne tenuta in conto, e l’autorizzazione papale fu ottenuta.

Da quel momento Elisabetta dovette sottoporsi a studi intensivi, allo scopo di colmare le numerose lacune della sua istruzione, e dovette quindi imparare in breve tempo l’Italiano, il Francese e, in particolare, la storia dell’Austria. Il 23 Aprile 1854 fece così il suo ingresso ufficiale a Vienna, e il 24 furono celebrate le nozze tra lei e Francesco Giuseppe.

Ma la sua nuova vita alla corte di Vienna non si presentava affatto facile, dovendosi lei adeguare alle rigide regole di questa, caratterizzata ancora da un severo “cerimoniale spagnolo”: ella dovette quindi rinunciare alle sue abitudini più semplici e ai suoi affetti, e ben presto ciò le causò un profondo malessere psicofisico, con febbre, tosse e stati di ansia.

L’arciduchessa Sofia, madre dell’Imperatore, s’impegnò così intensamente per rendere la nuora una “perfetta imperatrice”, aderendo così strettamente all’etichetta di corte, da finire per apparire ai suoi occhi come una donna malvagia.

I FIGLI: Nel 1855 Elisabetta diede alla luce la sua prima figlia, che venne chiamata Sofia, in onore della nonna paterna, la quale volle occuparsi di lei personalmente; poco più di un anno dopo nacque la seconda bimba, Gisella, e anche lei fu “presa in consegna” dalla nonna. Ma la giovane imperatrice riuscì finalmente a far valere i suoi diritti di moglie e di madre, portando con sé Sofia nel viaggio che fece in Italia con Francesco Giuseppe, nell’Inverno tra il 1856 e il 1857; si riavvicinò così anche al marito, spesso compiacente nei confronti dell’arciduchessa sua madre.

Durante il viaggio in Italia, Elisabetta si rese conto che l’Impero degli Asburgo non era certo così amato dalla popolazione come lo era in Austria, a causa del severo regime militaresco che questo imponeva ai popoli ad esso sottoposti; ella non ricevette dunque l’acclamazione festante della folla alla quale era abituata in Austria, ciononostante in essa traspariva, come solito, una grande curiosità nei suoi confronti, dovuta alla sua fama di donna meravigliosamente bella.

Seguì poi un viaggio in Ungheria, nel quale ancora dovette imporsi per portare con sé le bambine; purtroppo, però, durante questo la piccola Sofia si ammalò e morì: profondamente addolorata e inoltre in preda ai sensi di colpa per aver insistito ad avere la bimba con sé, al ritorno a Vienna ella si chiuse in sé stessa e affidò l’educazione di Gisella alla suocera.

Nel 1858 mise al mondo il suo terzogenito, Rodolfo, principe ereditario dell’Impero Austriaco; il parto fu difficoltoso ed ella ne risentì fino ad ammalarsi, e poiché fino all’Inverno le sue condizioni non erano ancora migliorate, intervennero in suo aiuto sua madre la duchessa Ludovica e il medico di famiglia dei Wittelsbach.

LA MALATTIA E LA GUERRA: La sua salute sembrava migliorare soltanto quando si trovava in compagnia della sua famiglia bavarese. L’anno 1859 fu difficile anche per l’Impero, e quando le truppe austriache furono sconfitte nella battaglia di Magenta, durante la seconda Guerra d’Indipendenza Italiana, ella volle accompagnare Francesco Giuseppe fino alla sua partenza per andare a comandare personalmente l’esercito; mentre il marito era in guerra, cadde in uno stato di angoscia profonda, tanto da chiedergli di poterlo raggiungere: ricevutone però un diniego, da quel momento s’impose un regime di diete estreme e faticose cavalcate, e rifiutò di partecipare a tutti gli impegni sociali che l’arciduchessa Sofia le organizzava. Quando i franco-piemontesi vinsero definitivamente gli Austriaci con la battaglia di Solferino, molti feriti furono portati in Austria, ed ella fece allestire per loro un ospedale militare nel castello di Laxenburg. Infine, con l’armistizio di Villafranca, l’Austria dovette rinunciare alla Lombardia, une delle provincie più ricche dell’Impero.

LA CRISI CONIUGALE: Contemporaneamente alla crisi dell’Impero Austriaco del 1859-60, cominciò anche la crisi coniugale tra lei e Francesco Giuseppe, dovuta alle voci riguardanti le infedeltà di quest’ultimo; “reduce” da quelle di suo padre nei confronti di sua madre, Elisabetta reagì con un atteggiamento di sfida: organizzando balli di corte ai quali invitava i giovani aristocratici viennesi senza i loro genitori, cosa assolutamente contraria all’”etichetta”. E a Luglio del 1860 lasciò improvvisamente Vienna assieme a Gisella e si diresse nella sua amata residenza d’infanzia, a Possenhofen; tornò però nell’Agosto, per il compleanno del marito, per evitare uno scandalo.

In seguito la sua salute peggiorò molto, così il suo medico, specialista in malattie polmonari, le consigliò di recarsi in un paese dal clima caldo, e la scelta cadde su Madeira, nell’arcipelago portoghese, dunque ben lontano da Vienna, la qual cosa fece indignare ulteriormente la corte viennese. La storica Brigitte Hamann sospettò che la malattia di cui soffriva l’imperatrice, che si acuiva a contatto con tale corte, portandola a reagire con drastiche cure dimagranti ed intensi esercizi fisici, fosse una forma di Anoressia Nervosa, che si affievoliva nel momento in cui lei se ne allontanava.

REGINA D’UNGHERIA: Nel Giugno del 1867, all’età di trent’anni, Elisabetta venne incoronata Regina d’Ungheria, inquieta provincia dell’Impero, per la cui cultura ella nutriva un profondo interesse, nato grazie alle lezioni del conte Majlath; gli Ungheresi, consapevoli di ciò, speravano che l’imperatrice potesse influenzare positivamente il marito nei loro confronti.

Nel 1868 nacque la sua ultima figlia, da lei prediletta, Maria Valeria, della cui educazione volle occuparsi personalmente, a differenza di quanto era accaduto con gli altri figli; la piccola fu fatta nascere volutamente a Buda, all’epoca capitale dell’Ungheria, proprio come omaggio della regina ai suoi sudditi preferiti.

I FATTI DI MAYERLING E LA MORTE:

Il 1879 fu l’anno in cui Elisabetta e Francesco Giuseppe festeggiarono le nozze d’argento. Dieci anni più tardi, nel 1889, il figlio Rodolfo, principe ereditario dell’Impero Austro-Ungarico, morì suicida insieme alla sua amante, la baronessa Maria Vetsera-probabilmente da lui stesso uccisa- nel castello di Mayerling, nella Bassa Austria: dopo questa ulteriore tragedia, Elisabetta si vestì solo di nero, in segno di lutto, e smise di scrivere poesie e di festeggiare le festività natalizie, attività che prima aveva sempre amato; riprese inoltre i suoi viaggi in Europa, in particolare in Grecia, paese che amava molto, forse nel tentativo di superare la profonda depressione nella quale era caduta, ma evitando il più possibile di apparire in pubblico e nelle corti.

Infine, nel Settembre del 1898, all’età di sessant’anni, mentre si trovava in incognito a Ginevra, in Svizzera, soggiornando all’”Hotel Beau Rivage”, sul lungolago ginevrino, e stava aspettando un battello per Montreux, l’italiano anarchico Luigi Lucheni la pugnalò al petto con un colpo preciso, causandone la morte, un’ora più tardi. Interrogato in seguito riguardo al suo gesto, egli lo motivò con il suo odio per i ricchi, dal momento che lui era povero, nonché anarchico. Davvero un amaro destino per questa celebre “principessa”, che, nonostante l’ossessione per la propria bellezza, nel corso della sua tormentata esistenza si dimostrò sempre così attenta e sollecita verso coloro che non avevano potuto godere dei suoi stessi privilegi…

Vittoria Montemezzo

Il Ministro per la Disabilità, Alessandra Locatelli, assieme ai Ministri del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Elvira Calderone, dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, e del Turismo, Daniela Garnero Santanché, ha annunciato la firma del decreto che delinea il riparto del Fondo Unico per l’inclusione delle persone con disabilità. Questo fondo è specificatamente destinato a sostenere lo sviluppo di un turismo accessibile e inclusivo in tutto il territorio italiano.

Il Fondo Unico sarà assegnato alle varie regioni italiane, incaricate di risolvere le problematiche legate all’accessibilità e di destinare i fondi alle aree e infrastrutture che necessitano di essere migliorate. Le regioni potranno utilizzare queste risorse sia autonomamente sia collaborando con enti pubblici o del terzo settore.

Il decreto stabilisce anche la creazione di opportunità di tirocini formativi per le persone con disabilità, per favorire la loro inclusione lavorativa e la tutela dei loro diritti. La Ministra Locatelli ha espresso gratitudine verso i ministri coinvolti per il loro sostegno e ha ribadito che l’accessibilità universale è uno dei pilastri fondamentali della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.

Cristina Zangone